Gli esport sono uno sport?

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Se leggi questa newsletter dalla prima puntata, ormai hai capito che le mie domande non hanno mai una risposta semplice; anzi, sono spesso una riflessione che non ha ancora trovato una risposta definitiva. Gli esport (cioè gli sport elettronici) sono un nome di richiamo per qualcosa che, in realtà, esiste da tantissimo tempo: i tornei di videogiochi, oggi diventati un fenomeno di intrattenimento che, secondo le stime più recenti, varrà circa 1,1 miliardi di dollari entro la fine del 2021.

L’idea che stare seduti di fronte a un videogioco possa essere considerato sport è da molti considerato blasfemo: come si può paragonare tale pratica al calcio, alla maratona o al nuoto? Chi si pone questa domanda ha ragione: non si può. Ma è la domanda a essere sbagliata.

Primo: legare la definizione di sport a un’intensa attività fisica e al sudore può essere molto limitante. Se ci limitiamo a questa prospettiva, tante discipline olimpiche odierne non avrebbero senso. Da questo punto di vista, nemmeno il tiro al piattello verrebbe considerato uno sport. Gli atleti che praticano questa disciplina non hanno la stessa preparazione fisica di un calciatore o di un corridore; eppure, è disciplina olimpica con tanto di medagliere (e sport in cui l’Italia riesce a dire la sua) perché richiede talento, dedizione, riflessi e capacità che pochi riescono a sviluppare a quel livello. Lo stesso discorso può essere applicato anche per altri sport dove l’attività fisica (intesa come sforzo da praticare per ottenere il risultato previsto) è secondaria se non quasi assente: il golf, il biliardo, il tiro con l’arco, gli scacchi.

Secondo: chi pratica gli esport non è interessato a tale paragone; sono gli sport tradizionali, semmai, che hanno bisogno del sostegno degli esport per avvicinarsi a un pubblico molto giovane che non segue sport come il calcio e il basket. È il motivo per cui tante squadre di calcio hanno anche una divisione dedicata agli esport (soprattutto di FIFA o PES, ma non solo) e per cui il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha raccomandato alle federazioni sportive di “incoraggiare lo sviluppo degli sport virtuali e interagire ulteriormente con le comunità videoludiche”. Per “sport virtuali” vengono intese le riproduzioni videoludiche delle discipline già previste dal CIO.

L’idea del CIO è che gli esport come League of Legends o Dota 2 siano difficili da integrare nell’attuale ecosistema olimpico: sarebbe difficile spiegare le loro dinamiche, ricche di termini tecnici, a un pubblico che non li conosce, per esempio. Seguire una partita di FIFA o di PES è più semplice perché sono la trasposizione del calcio che segue le regole del calcio. In diversi casi, inoltre, gli esport sono lontani dai valori che il CIO vuole trasmettere (d’altronde, in Counter-Strike l’obiettivo è uccidere l’avversario prima che lui uccida te).

A maggio 2019 si sono tenute a Milano le finali della Pro League di Rainbow Six: Siege

Il discorso, quindi, è ribaltato: gli sport stanno cercando un riconoscimento da parte di chi sta ora seguendo gli esport; non viceversa. Anzi, secondo molti esponenti del mondo esportivo, gli esport non hanno bisogno di essere parte dell’universo olimpico: sono una cosa a parte e va bene così. 

La discussione stessa sull’identificazione o meno degli esport come sport nasce negli ambienti sportivi per giustificare la scelta di includere i videogiochi competitivi nel proprio mondo. Chi segue i tornei di videogiochi nemmeno si pone il problema: gli esport uniscono in modo coinvolgente intrattenimento e competizione e vengono seguiti proprio per questo.

Il riconoscimento sportivo, per altro, è spesso subordinato al momento in cui un dato fenomeno diventa popolare e remunerativo: è accaduto con le freccette, da pochi anni riconosciute come sport; ma solo quando hanno iniziato a essere trasmessi in TV i massimi tornei e quindi a interessare il giro d’affari pubblicitario. Lo stesso può essere detto per gli esport, spesso sponsorizzati da società non endemiche (ossia esterne al settore) come marchi di moda e di tecnologia. La questione sportiva, insomma, è un dito dietro a cui nascondersi.

Definire gli esport uno sport è quindi argomento di dibattito, sebbene ormai tante istituzioni (come il CIO, appunto) abbiano spalancato una porta che non può più essere chiusa. Il punto è un altro: a prescindere da come sono definiti, gli esport sono un movimento concreto che esiste e viene seguito perché piace. 


GAMESTOP CI STA PROVANDO

La situazione finanziaria di GameStop è in continua evoluzione. Dopo che a metà gennaio erano state protagoniste di un incremento repentino, le azioni della società si erano stabilizzate nei primi giorni di febbraio, pur su valori più alti rispetto a quando il “rally finanziario” era cominciato. Nelle ultime due settimane, però, hanno ripreso a crescere: sebbene, anche questa volta, c’entrino poco i fondamentali (margini di profitto, flusso di cassa, prospettive di crescita etc) e molto di più il sentimento del web.

GameStop ha annunciato di aver creato un comitato speciale che dovrà trasformare la società da (ex) gigante delle vendite fisiche a portale di ecommerce. A guidare tale comunicato ci sarà Ryan Cohen, fondatore di Chewy.com (un sito che vende prodotti per animali). Faranno parte del comitato anche un ex dirigente di Chewy, Alan Attal, e il responsabile per gli investimenti di Hestia Capital Management, Kurt Wolf. È bastata questa notizia per far risalire il valore delle azioni: venerdì hanno chiuso a 264,50 dollari; valevano meno di 19 dollari il 31 dicembre 2020. Eppure, la reale ragione per cui GameStop sia passata da 44 dollari il 23 febbraio a 264 dollari meno di un mese dopo sono soprattutto irrazionali: sono legati alla figura di Cohen e ad alcuni suoi tweet piuttosto criptici.