Ho giocato a Gomorra e ho molte domande

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

A parlare con le persone potrebbe sembrare che i videogiochi in Italia siano una novità degli ultimi anni. Invece, il settore ha radici profonde: la fondazione di Simulmondo – la prima grande casa di sviluppo italiana – risale al 1988 (poi chiuse nel 1999); Milestone – oggi parte del gruppo svedese Embracer – è degli anni 90.

Eppure, nonostante ciò, ci sono storie che pochi conoscono: perché era un settore meno in vista di adesso (e potremmo ragionare su quanto sia in vista oggi al di fuori della stampa specializzata e delle persone appassionate: ma è un altro discorso); perché certe cose, semplicemente, è meglio evitare di dirle.

Per questo, il lavoro di preservazione della storia portato avanti da persone come Damiano Gerli (vi invito a seguire il suo progetto, The Genesis Temple) è molto importante.

Gerli ha scritto recentemente un articolo, che è stato pubblicato sulla testata internazionale Kotaku, in cui racconta dall’inizio alla fine cos’è stato Gioventù Ribelle.

Un videogioco pensato per celebrare i 150 anni dal Risorgimento italiano e che è diventato uno dei progetti più problematici per la storia dell’industria italiana dei videogiochi, soprattutto per la scarsa trasparenza delle persone coinvolte. Un videogioco fortemente sponsorizzato dalle istituzioni e che è diventato una delle storie più negative del settore italiano.

“I problemi erano tanti ed evidenti: l’IA dei nemici passava la maggior parte del tempo ferma immobile sul posto, il tuo personaggio era invincibile e quando l’IA finalmente riusciva a liberarsi dalle sue catene invisibili, centrava il bersaglio con ogni colpo”, scrive Gerli. “Le tipiche meccaniche che ci si aspetterebbe da un FPS semplicemente non funzionavano”.

C’è di più. “Gioventù Ribelle includeva molte inaccuratezze storiche, come abiti papabili incoerenti con il periodo storico e il suono delle armi era più vicino a quello di un videogioco moderno”.

In definitiva, il gioco “era semplicemente un casino. Gioventù Ribelle è stato messo offline dal suo misterioso team di sviluppo appena pochi giorni dopo il suo debutto, il 24 marzo 2011”.

Nell’incastro di Gioventù Ribelle c’è tanto di ciò che non funzionava al tempo e che, per certi versi, non funziona ancora oggi: istituzioni poco avvezze ai videogiochi; persone di scarsa esperienza che hanno lavorato a un progetto più grande di loro; l’incapacità, inoltre, di assumersi le proprie responsabilità e la scarsa trasparenza.

Conoscere il passato italiano del settore significa anche questo: significa capire cosa è stata l’Italia dei videogiochi negli ultimi quarant’anni.

Vorrei tanto dire che ciò serve a evitare che certe storpiature accadranno di nuovo: ma io per primo ci credo poco. Serve, però, a realizzare che c’è stato un prima, rispetto a oggi, e cosa quel prima ha significato. E questo è già qualcosa.

Massimiliano


Quando è stato annunciato il videogioco di Gomorra – basato sull’omonimo romanzo di Roberto Saviano, da cui sono già state tratti film, opere teatrali e, quella che forse è la sua versione più popolare: la serie TV – il mio interesse era abbastanza alto.

Innanzitutto, perché è una storia che in Italia tante persone conoscono, anche solo di nome. E poi perché Gomorra era stato tradotto in videogioco da uno studio italiano, cioè 34BigThings.

La prima cosa che ho fatto, quindi, è stata quella di scrivere la notizia per DDAY intervistando il game designer Vittorio Mattia Bernatti per chiedere i perché e i percome di com’era stato ideato e di cosa aveva previsto.

Quell’intervista venne fatta prima che il gioco venisse lanciato sul mercato; anzi, persino prima che sapessimo quanto sarebbe costato (spoiler: 2,99 euro).

Pochi giorni dopo quell’intervista, ho giocato a Gomorra e l’ho finito. E mi sono emerse molte domande. Per questo, sono voluto tornare da Bernatti per per una seconda intervista e per trovare delle risposte.

Cos’è Gomorra

Intanto, un passo indietro. Gomorra è un videogioco narrativo (disponibile per Android, iOS e PC) che include anche delle componenti gestionali. In pratica, la storia si sviluppa nell’arco di capitoli, a loro volta suddivisi in missioni, che vengono raccontate attraverso dei fumetti interattivi.

Di fatto, quindi, non c’è un personaggio da muovere; non c’è un ambiente 3D (ma nemmeno 2D) in cui inserirsi e fare cose.

Quando ho installato il gioco sul mio smartphone, ho realizzato che mi trovavo di fronte a una produzione a basso budget: il prezzo (ripeto: 2,99 euro), la totale mancanza di un ambiente virtuale e la modesta longevità del gioco (circa un’ora e mezza, due ore) mi sembravano segnali in quella direzione.

Quando chiedo spiegazioni a Bernatti, prima mi risponde che la decisione sul prezzo è avvenuta su tavoli dove lui non partecipa. Insomma: non mi sa dire i perché e i percome della scelta. “Non è proprio una domanda per me”, mi dice in videochiamata.

Il tema però mi interessa. Perché vista la portata, in particolare, della serie TV e come il “marchio” Gomorra sia popolare in Italia mi suona perlomeno curioso che la scelta sia stata una produzione di così basso profilo.

Così, ritorno sulla questione: perché non un gioco 3D o comunque un gioco di azione, che è la prima idea che balena nella testa di una persona a cui dici “ehi, esiste un videogioco di Gomorra”?