C’è una cultura che ruota attorno al videogioco basata su un’idea quasi ancestrale del mezzo. Un’idea che non è infondata; ma che racconta solo una porzione del videogioco e lo fa, peraltro, escludendo la naturale evoluzione che il mezzo ha avuto nel corso degli ultimi trent’anni, forse anche di più.
Mi sto riferendo all’idea che i “videogiochi veri” siano quelli che hanno un alto livello di sfida, che disorientano chi li gioca e che, insomma, i giochi più accessibili, più narrativi e più intuitivi rappresentino invece una distorsione dell’idea originale del videogioco e del videogiocare quale atto di sfida contro una macchina.
La discussione è riemersa a seguito di un’intervista rilasciata dallo sviluppatore indipendente spagnolo, Daniel Manzano, fresco di pubblicazione di Moons of Darsalon, videogioco 2D che riprende schemi e meccaniche care ai videogiochi per Commodore 64 o SNES e che ha impiegato otto anni per realizzare.
Nell’intervista rilasciata a Premortem Games, Manzano sostiene la ragione dei “videogiochi veri” solo quando propongono una sfida rilevante.
“Il moderno ecosistema dei videogiochi sta uccidendo i veri videogiochi”, ha risposto Manzano parlando delle lezioni che ha imparato durante il lungo sviluppo del suo gioco. “Per me, un videogioco deve offrire una sfida, qualcosa che vuoi rigiocare per vedere se le tue abilità stanno migliorando. Il divertimento di giocare ai videogiochi sta tutto qui. Ma il moderno ecosistema dei videogiochi sta creando un gruppo davvero grande di giocatori che vedono queste cose come negative. Se cadono da un dirupo, allora vogliono un checkpoint in cima a quel dirupo; se un nemico spara e loro non fanno assolutamente niente per evitare il proiettile, si lamentano della difficoltà; se devono ripetere un livello perché sono morti perché non hanno fatto attenzione mentre giocavano, allora esclamano ‘“Devo ripetere tutto ora?!”
Naturalmente, l’idea è quella che il suo videogioco sia parte della schiera dei “veri videogiochi” mentre altri, come quelli più popolari, non lo siano.
Ed è anche vero che esiste una platea di persone che rientrano nella descrizione fatta da Manzano: che nei videogiochi non cercano principalmente la sfida, bensì un’esperienza complessiva – magari anche semplificata – che possa puntare sulla storia, per esempio, o sulle emozioni. O un’esperienza che possa, in certe situazioni, offrire strumenti che semplificano la soluzione di un’enigma o il superamento di un certo ostacolo.
Ciò che Manzano, però, sta anche dicendo fra le righe è che questi videogiochi non hanno diritto di essere chiamati tali; non hanno il diritto di chiamarsi videogiochi perché avrebbero lasciato indietro la sfida in favore dell’allargamento del pubblico.
Ed è vero che è successo: ma continuano a essere una parte di un discorso videoludico molto più allargato.
(N.B.: Sto volutamente tralasciando praticamente tutta la produzione recente di From Software, da Demon’s Souls fino a Elden Ring, che ci dice che quel tipo di videogiochi oltre a esistere ancora può riscuotere un grande successo.)
Pensare che il videogioco sia una cosa sola è sbagliato sotto tanti aspetti: è una forma di creazione e come tale permette di dare vita a tante cose, anche molto diverse. Da Unpacking a Super Meat Boy; da The Last Guardian a What the Golf; da The Last of Us a Sea of Thieves; da Minecraft a Wheels of Aurelia.
Grazie al cielo Manzano si sbaglia.
Il problema è che questa idea è radicata in un modo di intendere il videogioco che è figlio di un tempo in cui il mezzo era meno popolare e, sotto alcuni aspetti, anche meno accessibile. Oggi il videogioco è tutto e niente: è tante cose tutte insieme, dalla sfida fino a un’esperienza semi-guidata, ma immersiva.
Insinuare che esista un “vero videogioco” – qualunque sia secondo la persona a cui viene chiesto – e che per contrapposizione esistano anche i “videogiochi non veri” è un’idea respingente, che cioè allontana altre persone che vogliano avvicinarsi ai videogiochi, oltre che proprio sbagliata nei fatti.