Il periodo di transizione e stabilizzazione che sta passando l’industria dopo la sbronza pandemica mi sta portando a riflettere sulla definizione di “crescita”. Soprattutto, di come la vogliamo interpretare, questa crescita, e quale delle sue varie modalità di esecuzione possa essere quella più auspicabile.
Da una parte, c’è una crescita del settore intesa dalla prospettiva industriale e commerciale: sempre più ricavi, sempre più aziende, sempre più videogiochi che hanno successo. Che poi, è la crescita che più di frequente si parla, quella che si auspica di trovare fra le conclusioni di qualunque rapporto annuale; quella crescita che spera sempre ci sia il segno positivo alla fine, per aver spuntato un’altra volta. Avercela fatta un altro anno fregiandosi del titolo della più grande industria dell’intrattenimento.
C’è poi un’altra crescita, che però vedo meno raccontata, almeno nella discussione generale. Cioè una crescita che non guardi al volume degli affari o alla quantità di dipendenti o al numero di videogiochi sul mercato; bensì al contesto – lavorativo, umano, creativo – dello sviluppo e della creazione dei videogiochi. In altre parole, una crescita che sposi condizioni migliori, paghe più adeguate e situazioni che facciano sì che non ci si ritrovi con 6.000 persone licenziate in meno di 40 giorni dall’inizio dell’anno.
Significa che le aziende devono per forza tenere tutti i dipendenti, anche quando la situazione lo richiede espressamente? No, ci mancherebbe. I licenziamenti sono parte del discorso lavorativo da sempre ed è normale che lo siano. È meno normale che lo siano le condizioni del crunch, con straordinari obbligatori per arrivare alla scadenza e pubblicare un videogioco; meno la chiusura degli studi perché hanno provato a perseguire l’ultima tendenza, sbattendo la testa contro la realtà; meno il dover rapportarsi con una parte del pubblico così estremizzata da insultare e denigrare chi lavora con e per i videogiochi; meno la mancanza di riconoscimento nei titolo di coda dei lavoratori e delle lavoratrici.
Solo che a questo punto dobbiamo deciderci. Passatemi questa metafora, che forse rende l’idea. Dobbiamo capire se ci interessa di più avere una bellissima palafitta, con tutte le decorazioni e che attira un sacco di turisti che vengono a vederla da tutto il mondo; ma che poi alla prima alta marea diventa inutilizzabile. Oppure se preferiamo costruire con più calma un’abitazione, magari più modesta, magari più piccola, ma con solide fondamenta e capace di sostenersi a lungo. Ci vorrebbe più tempo, ma potrebbe valerne la pena.