Il giornalismo viene visto con diffidenza. Non solo nel mondo dei videogiochi, ma in ogni settore. Per tanti anni chi pratica questo mestiere ha buttato all’aria la fiducia e il rapporto con i lettori e oggi le conseguenze sono ovunque.
A questo clima si è aggiunto un ulteriore problema: i tagli al personale, le riduzioni dell’organico, la chiusura di siti e di riviste. Tutto ciò ha colpito anche il mondo dei videogiochi: ci sono stati licenziamenti in GameSpot e in Giant Bomb, hanno chiuso le sezioni dedicate del Washington Post e di Vice (anzi, ora Vice ha chiuso del tutto). In Italia ha chiuso Eurogamer.
Oggi ci sono meno persone chiamate a mantenere, però, gli stessi livelli produttivi di prima. I risultati sono prevedibili: è ancora più difficile fare informazione accurata e ragionata. E già prima non andava bene.
Un recente articolo del The Atlantic, intitolato “Vi mancherà il giornalismo sportivo quando non ci sarà più”, ha riassunto la situazione del settore. Sì, sportivo: non ho sbagliato. Anche in questo ambito le redazioni sono sempre più risicate e le condizioni di lavoro più complicate.
“Questo non è un problema solo per gli appassionati dello sport; è un problema per tutti noi”, ha scritto Keith O’Brien. “Potrebbe non importarti dello sport, ma allo sport importa di te. Le sue impronte sono ovunque nella vita americana: sull’intrattenimento, sulla cultura, sulla politica, sull’economia. Gli allenatori di football del college sono fra i dipendenti pubblici più pagati del Paese. I proprietari delle squadre esercitano un enorme peso finanziario e politico. Gli accordi sugli stadi possono rimodellare il paesaggio urbano e nel frattempo prosciugare la base imponibile locale. E ora un’industria completamente nuova è stata costruita sopra quella esistente”.
Togliete la parola “sport” e metteteci “videogiochi”. Togliete “proprietari delle squadre” e metteteci “editori” o “multinazionali”. Anziché parlare di accordi sugli stadi, parliamo degli investitori che provengono da paesi dove lo stato di diritto non esiste. Oppure di regolamentazioni stringenti dove i contenuti sono vincolati all’approvazione del pensiero governativo.
Il discorso cambia poco. I videogiochi non sono solo videogiochi: sono cultura, sono espressione; sono propaganda. Sono un modo per intercettare un pubblico giovanile, più malleabile. Sono un vettore imprenditoriale per accelerare lo sviluppo di un paese. Sono un modo per fare “gameswashing”.
La riduzione del giornalismo attorno ai videogiochi è un problema enorme. Perché se meno voci possono spendere le loro giornate a scoprire le verità, a fare domande, a controllare le fonti e a verificare le informazioni, allora più potere viene concesso alle aziende, agli ambienti di lavoro tossici, al revisionismo di fatti storici rendendolo intrattenimento.
E già oggi facciamo affidamento su un gruppo molto ristretto di persone in tutto il mondo per scoprire i fattacci dell’industria e i dietro le quinte che servono per far emergere le problematiche peggiori.
Vale per la politica, vale per lo sport e vale anche per i videogiochi.
Massimiliano
Di mobile si parla poco, soprattutto per due motivi. Il primo: ci si vergogna delle produzioni mobile. Il secondo: il pubblico coinvolto da questi videogiochi è forse ancora meno interessato all’informazione rispetto a quello console e PC; e quindi l’informazione, a sua volta, non lo sostiene.
Ciò potrebbe portare al convincimento, che sarebbe sbagliato, che gli editori di cui si parla più spesso siano quasi estranei al mondo mobile. O viceversa, che siano solo i produttori cinesi come Tencent a guadagnarci dai videogiochi pubblicati su smartphone.
Mito n.1: ci guadagna solo la Cina
Uno sguardo al recente rapporto pubblicato da data.ai smonta intanto questo preconcetto.
È vero che le aziende cinesi sono quelle che guadagnano di più dal mondo mobile, oltre 27,5 miliardi di dollari, ma coprono circa un terzo del mercato. Girando il dato significa che due terzi degli introiti del mercato mobile non vanno nelle casse delle aziende cinesi.