Qual è il ruolo della critica videoludica?

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Ogni domenica invio una nuova puntata.

Quella che ti appresti a leggere è una puntata insolita.

L’intervista che propongo questa settimana a Luigi Marrone, co-fondatore di Ludenz, è molto ampia, interessante e ricca di spunti. Perciò ho voluto proporla in forma integrale e di conseguenza non è avanzato lo spazio per i consueti approfondimenti. Ritengo, però, che la conversazione con Luigi sia più che sufficiente per un’analisi affascinante del ruolo della critica videoludica per accrescere la cultura attorno al videogioco.

La normale versione di Insert Coin tornerà la prossima settimana.

Massimiliano


Ludenz è un progetto culturale indipendente che, tramite la rivista, i podcast, le dirette Twitch e il sito, offre spunti interessanti – e per certi versi inediti – sul videogioco e la critica videoludica.

Con Luigi Marrone, co-fondatore di Ludenz, ho voluto quindi approfondire questo aspetto e discutere con lui di cosa possa fare la critica videoludica per una buona divulgazione.

Massimiliano: Qual è il compito della critica videoludica?

Luigi Marrone: Credo che sia un compito ideale, vale a dire che dovrebbe avere un ruolo pedagogico ed educazionale. Qualcosa che difficilmente lo puoi rintracciare nella critica attuale, salvo in quelle che io definisco varie sacche di resistenza.

La migliore critica è quella foriera di rivelazioni; una critica creativa e libera e che non ha a che vedere con tutte le influenze che oggi assaltano la comunicazione online: i dati, i numeri, l’ossessione dell’informare, l’algoritmo, la capacità di visibilità sui motori di ricerca, uscire alla scadenza dell’embargo. Non sono cose che riguardano una critica culturale dei videogiochi che possa definirsi tale.

Il compito è di non essere rassicurante né socializzata, ma di poter accrescere la conoscenza di chi la sa accogliere. Per me si tratta di una critica che mi fa vedere qualcosa di un’opera che da solo non so formulare e che spinge la mia capacità autonoma di attribuire un valore soggettivo e personale all’oggetto criticato e non un consenso collettivizzato.

Una critica che indirettamente ti educa all’emancipazione e all’autonomia del pensiero affinché questo possa sentirsi libero e affinché anche il prossimo che si imbatte nel tuo pensiero possa produrre nuove rivelazioni. In Italia la critica è diventata sinonimo di recensione, consiglio, guida all’acquisto, suggerimento.

Oggi quando si parla di critica videoludica si parla di quella che hai appena descritto, mentre quella reale, più sofisticata, viene spesso respinta perché usa un lessico che le persone non sono abituate a vedere quando sono trattati i videogiochi: le persone non la capiscono, ritengono che sia un parlare troppo seriamente di qualcosa che non va preso seriamente. Perciò ti chiedo: la critica videoludica può essere per tutti?

Io non credo che debba essere per tutti. Credo che la critica debba avere la possibilità di esprimersi su diversi registri culturali, stilistici e intellettuali affinché chiunque si avvicini alla critica possa poi sviluppare un suo senso critico e sentirsi più vicino e in sintonia con i contenuti.

Dev’essere sfatata l’idea di una critica per tutti, bella pronta. Bisogna capire, invece, che richiede uno sforzo non triviale per comprendere certi meccanismi anche culturali e sociali che accadono quando si gioca e si scrive di videogiochi.

Io faccio sempre un esempio. A volte faccio baby sitting, per una coppia di amici, a una bambina di 5 anni. Quando lei non comprende qualcosa che io le dico, molto umilmente mi chiede cosa significa. È calma e attenta nel cercare di capire e ampliare il proprio orizzonte alfabetico.

Non vedo questo atteggiamento in chi consuma critica. A quel punto, poi, si creano quelle discrepanze che fanno dire “questa è critica alta, questa è critica bassa; io la critica alta non la accetto perché è accademica, è snob e voglio le cose oggettive che possano essere fruite senza un vocabolario in mano”. Questo non ci porta nella giusta direzione.

Pensi che ciò sia una deviazione di un modo in cui per molti anni il videogioco è stato comunicato dalle aziende? Qualcosa di pronto da fruire quasi passivamente e che non può fornire messaggi analitici e introspettivi? Il videogioco stesso ha vissuto un’evoluzione che ora stiamo vedendo anche nella critica.

Lavorando per PlayStation Magazine per anni, partecipando alle fiere di settore e sentendo le voci dei game designer e di chi crea i videogiochi, ho potuto ascoltare delle voci che sono diametralmente opposte al modo in cui poi i publisher presentano quel determinato tipo di videogioco.

Ci sono ampi campi culturali di riferimento, vasti e sterminati, a cui i publisher non sono interessati quando promuovono il videogioco perché devono parlare una lingua che sia promozionale, comune, e fare leva sulla macchina emotiva che è diventata l’apparato della sensibilità degli utenti.