I contratti negli esport sono un problema

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Un ulteriore modo per capire quanto il mondo degli esport – se sei stato fuori dal mondo, sto parlando dei tornei di videogiochi, che oggi sono una via di mezzo fra competizione e intrattenimento – si stia muovendo troppo velocemente è comprendere i contratti che vincolano chi gioca nelle squadre.

Un corposo resoconto di Noah Smith sul Washington Post ha descritto il modo, spesso aggressivo, con cui le organizzazioni applicano condizioni opprimenti ai giocatori e alle giocatrici.

Alcuni esempi: 

  • possono essere venduti in qualsiasi momento, anche a una squadre che si trova in un altro Paese, senza consenso;
  • se rimangono in panchina, vengono pagati meno;
  • quando viene fatta loro una proposta, tale proposta ha una scadenza molto ristretta, anche di poche ore dal momento dell’invio;
  • inoltre, le organizzazioni spesso fungono anche da agenzie (anche quando servirebbe non hanno la licenza specifica per poterlo) di queste giovani promesse e quindi trattengono una quota anche dalle sponsorizzazioni e dagli altri accordi pubblicitari.

 “Anche se l’industria degli esport si sta spingendo verso il mainstream e fiorisce in un giro d’affari miliardario, con tanto di leghe organizzate e grandi sponsor, molti contratti vengono negoziati in un modo che ricorda il Wild West” ha scritto Smith.

Mentre i giocatori più esperti, nonché più vittoriosi, hanno maggiori margini di manovra, quando si tratta delle persone più giovani, spesso ancora minorenni, la situazione rasenta la tragicità e in giochi come Fortnite prassi prossime allo sfruttamento sono tristemente frequenti, secondo quanto raccolto dal Post: semplicemente perché il “legalese” – il difficile agglomerato di termini che contraddistinguono un contratto – non è facile da decifrare per chi non è aiutato da una persona esperta e l’entusiasmo di iniziare la carriera competitiva del proprio gioco preferito offusca la prospettiva.

Il problema è duplice: 

  • il settore degli esport è molto giovane, ma sta crescendo a ritmi sproporzionati (sebbene minori di quanto voglia far sembrare chiunque sia coinvolto, dalle organizzazioni agli editori);
  • non esiste un sindacato o comunque un ente collettivo che rappresenti gli interessi di chi gioca e quindi possa contribuire a contratti più equi.