Produrre grandi videogiochi non è solo costoso

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Fra le tante cose che sono emerse durante il dibattimento legale, che si è tenuto negli Stati Uniti, fra Microsoft e l’autorità antitrust – cioè la Federal Trade Commission (FTC) – ce n’è una che invece riguarda Sony.

Non che sia stato fatto apposta: una persona ha pensato che fosse sufficiente oscurare parti sensibili di un documento usando un evidenziatore nero, ma non ha riflettuto sul fatto che scannerizzare quel documento avrebbe rivelato le parole e i numeri che ci stavano sotto. Ed è ciò che i siti di informazione internazionali hanno fatto.

Così abbiamo scoperto varie cose interessanti.

Soprattutto, abbiamo scoperto che Horizon: Forbidden West è costato 212 milioni di dollari e che The Last of Us: Parte 2 è costato 220 milioni di dollari. Cifre importanti, senza dubbio; ma anche non così eccessive se paragonate ai grandi film usciti al cinema nel corso degli anni.

Se fossero stati film, Horizon: Forbidden West e The Last of Us: Parte 2 sarebbero in fondo alla classifica dei 50 film più costosi della storia. Dalle parti, per intenderci, di X-Men: Conflitto Finale (46°, 210 milioni di dollari), Men in Black 3 (44°, 215 milioni di dollari) e Avengers (41°, 220 milioni di dollari).

Eppure di questi film non se ne è parlato come produzioni troppo grandi per essere create o dalle fondamenta fragili – sono blockbuster, sono costosissimi e ricchi di effetti speciali. Mentre da tempo ci diciamo che i tripla A dei videogiochi (di cui Horizon e The Last of Us sono esponenti rilevanti) sono sempre più costosi, è difficile farli e sarà sempre peggio.

Allora torniamo al consueto discorso del dito e della Luna. Stiamo guardando il dito, cioè i costi, anziché la Luna nel valutare le complessità produttive dei videogiochi.

E se la Luna non è rappresentata dai costi di sviluppo, allora cos’è?

Potrebbe essere varie cose, fra cui:

  • produrre videogiochi implica una serie di processi che devono essere molto ben allineati e gestiti in maniera coerente perché portino al risultato auspicato (oltre al fatto che, be’, in un videogioco bisogna realizzare tutto, dal movimento dell’erba fino a come sbattono le porte). In altre parole: è complicato, sbagliare è facile e districare un problema che emerge non è cosa da poco. Più grande è la produzione, più persone sono coinvolte, più lungo è lo sviluppo e più tutto questo viene moltiplicato;
  • queste produzioni sono soprattutto destinate alle console – un pubblico che è rimasto quasi identico negli ultimi anni. Significa che i prezzi aumentano perché se il costo sale ma il pubblico resta grossomodo lo stesso, allora bisogna tirare fuori più guadagno dalle stesse persone. Mentre il pubblico del cinema (pur in restringimento perché ci sono Netflix, Prime Video, Disney+ e compagnia) è ampissimo, sebbene anche lì negli anni si siano registrati vari aumenti al prezzo del biglietto d’ingresso.

Da qui tutta la spinta a portare i videogiochi anche su PC – tendenza che persino Sony ha sdoganato – ma anche di trasformare sempre più di frequente i videogiochi in proprietà intellettuali transmediali.

Le serie TV, le serie animate, i fumetti e i film sono opportunità per massimizzare il valore di un videogioco al di là delle prestazioni commerciali della sua ultima iterazione su console, PC e mobile. Proprio per arrivare, infine, a quel pubblico che su console non c’è, ma che garantisce la monetizzazione che serve per costruire un altro grosso videogioco.