Ci sono tanti modi di scrivere di videogiochi. Per capire come lavora chi fa critica di videogiochi, ho chiesto a Matteo Lupetti, firma di articoli su testate italiane ed estere come Vice, Il Manifesto, Wireframe, Art Tribune, Dinamo Press e PC Gamer, di raccontarmi come lavora. Lo potete seguire su Facebook e Twitter.
Massimiliano: Che differenza c’è fra fare critica e fare giornalismo?
Matteo Lupetti: Sono due ambiti che, soprattutto nell’arte, sono sempre stati molto vicini. La differenza, se vogliamo estremizzare, è che il giornalismo dovrebbe essere sul riportare e scoprire i fatti. La critica in sé è un lavoro di costruzione di percorsi attraverso le storie dei media e dell’arte. Spiegare, capire, scegliere. Possono essere due lavori fatti da persone totalmente diverse con percorsi molto diversi. In realtà, negli ambiti artistici, nel cinema, nell’arte, nel videogioco, c’è sempre stata una sovrapposizione fra chi fa il giornalista e chi fa il critico.
Quando si fa critica videoludica si tende ad analizzare un dettaglio di un’esperienza che viene sviscerato in tutti i suoi aspetti. Tu come scegli quel dettaglio?
Secondo me è un buon modo per parlarne al pubblico non specializzato. È utile per introdurre persone agli argomenti. Solitamente, il dettaglio, anzi, è ciò che mi fa scegliere il gioco da trattare. Su una testata generalista, il pubblico può essere interessato più a un certo argomento che al videogioco in sé; quindi, scelgo il gioco se può interessare il mio pubblico. È molto utile per la comunicazione verso un pubblico non specializzato e dipende molto dalla testata per cui si scrive.
Esempio concreto. Su Vice ho parlato di Days Gone perché potevo usarlo, all’epoca, per parlare di zoonosi. Era uno dei pochi giochi che mostrava l’animale zombie, infettato dallo stesso virus che ha infettato gli esseri umani nel videogioco. Ne parlai con un esperto per spiegare come funziona la zoonosi e cosa rappresenta, anche culturalmente, il fatto che animali ed esseri umani abbiano lo stesso virus.
Ti leggo spesso su siti che non sono specializzati in videogiochi. Su questi siti non c’è spazio per la critica videoludica?
Ci sono due fattori. Uno: detto francamente, i siti specializzati in videogiochi non mi pagherebbero abbastanza. Non mi sarebbe possibile lavorarci professionalmente sopra. Dovrei scrivere una marea di articoli per guadagnare ciò che guadagno altrove con un articolo. È un fattore importante perché spiega magari perché all’estero io scriva di testate specializzate nel videogioco.
Secondo, ho sempre preferito scrivere rivolgendomi a un pubblico non specializzato e mettere il videogioco in contatto con altre cose inserendolo in contesti più ampi. In parte lo fanno anche le testate specializzate, sia chiaro, ma lo fanno indirizzandosi a una certa nicchia e sono cose che ho sempre trovato meno interessanti. Penso che sia importante parlare del videogioco e di cosa sia a un pubblico generalizzato.
Magari a quel tipo di pubblico generalista non è stato veicolato il videogioco in un modo che lo stuzzichi. Può anche evolvere il modo in cui il videogioco viene percepito.
Sì, la speranza è questa. Sulla testata generalista spesso il videogioco viene raccontato come business. Le persone pensano che il videogioco sia interessante perché genera un sacco di soldi. Sicuramente è vero, ma le persone dovrebbero essere interessate perché muove un sacco di denaro o perché un videogioco può parlare di cose che a loro interessano? Possono avvicinarsi al videogioco se capiscono che non tutti i videogiochi sono ingiocabili senza competenze specifiche o se anche quando un gioco è impegnativo, racconta cose che interessano. Vorrei togliere il videogioco da una nicchia in cui è limitato a essere un’industria dell’intrattenimento per uno specifico pubblico. Solitamente si parla del gioco su console e PC, che raggiunge relativamente poche persone sul totale di quelle che videogiocano. Vorrei mostrare che queste opere possono avere un impatto e un’importanza.
Su Art Tribune recensisci i giochi del mese precedente. Come li selezioni?
C’è prima un interesse a sceglierli in base alla testata, quindi cercando giochi che possano interessare il pubblico di Art Tribune. Cerco videogiochi che abbiano un aspetto interessante, essendo una testata di arte soprattutto figurative. Cerco, soprattutto, videogiochi di cui ci sia qualcosa da dire, che può voler dire videogiochi che siano interessanti da discutere perché inseriti in una certa tradizione: approfitto di quel videogioco per raccontare come si arriva al genere dei walking simulator, per esempio. Non scelgo letteralmente i migliori: ci sono giochi che mi piacciono e di cui parlo e altri che non mi sono piaciuti ma di cui parlo perché i loro difetti sono comunque rappresentativi di ciò che accade nel videogioco. Tengo comunque l’asticella alta: non parlo di cose sotto a un certo livello qualitativo. Fare la recensione negativa funzionerebbe meglio su un sito specializzato in videogiochi. Andrei a parlare male di qualcosa che i lettori non hanno mai sentito parlare. Perché farlo? Li scelgo con l’idea che deve essere interessante per il mio pubblico.
È evidente che per parlare di videogiochi con cognizione di causa si debba giocare molto. Quanti giochi ogni settimana?
Più o meno tre ore al giorno facendo una media sia durante le ore diurne sia dopo cena. Ci sono poi le grandi uscite per cui certi giochi che vanno giocati in tempi molto rapidi e quindi, in quei casi, l’intera giornata la passo a giocare perché devo scriverne.
Allo stesso tempo, per parlare di giochi non si può solo giocare. Tu hai parlato di Genesis Noir, che prende come riferimento le Cosmicomiche di Italo Calvino: se non hai letto quel libro, puoi perderti dei riferimenti o parte del discorso che Genesis Noir vuole costruire. Come bilanci il tempo dedicato ai videogiochi con quello per l’informazione e altre forme d’arte?
Parte della giornata la passo solo a leggere. Al cinema ci sono arrivato tardi, non sono mai stato appassionato in giovane età: è stato una necessità studiare un po’ di storia del cinema. In generale, penso che la critica videoludica che gioca solo ai videogiochi e legge solo recensioni di videogiochi sia un problema. Come la produzione videoludica che nasce solo giocando ai videogiochi. Nascono fenomeni di autofagia per cui divori e rigurgiti prodotti simili all’infinito. Invece è importante fare arrivare stimoli da altre parti, motivo per cui cerco di leggere molta saggistica. Cerco di distribuirlo durante la giornata.
Recentemente hai anche scritto di quanto i fumetti abbiano influenzato il modo di narrare i videogiochi. È il mezzo stesso a esser permeabile alle influenze esterne, quindi perché dovrebbe limitarsi chi ne scrive?
Quell’articolo era nato con l’idea di concentrarsi su ex autori di fumetti che si sono dati ai videogiochi e poi si è espanso. Diventa facile recensire videogiochi senza uscire dall’ambito videoludico finché si consumano videogiochi che sono semplicemente un’elaborazione di altri videogiochi. Ma se scrivi su testate generaliste e ti rivolgi a persone che non consumano i videogiochi di cui stai parlando, diventa inutile concentrarsi solo sull’aspetto videoludico: non stai acquisendo gli strumenti necessari per parlarne al tuo pubblico. Se consumi solo videogiochi, leggi solo recensioni videogiochi e vai a parlare a persone che non consumano videogiochi né leggono recensioni di videogiochi, di cosa parli?
Quando si scrive tanto di videogiochi – o almeno è una cosa che vivo io e volevo capire se capita anche a te – può capitare di sopravvalutare i propri pensieri, cioè a credere che una propria idea possa interessare anche ad altri e quindi valga un articolo. Tu come equilibri i tuoi spunti? Come filtri quelli che effettivamente possono essere uno spunto per tutti e quelli che invece possono interessare solo a te?
In questo senso, subentra un grande lavoro con i miei editor. Soprattutto sulle testate su cui scrivo più spesso ho un ottimo rapporto con gli editor, che penso sia il miglior termometro su quanto sia interessante ciò che hai pensato. Di tagli arditi ne possono arrivare tanti: alcuni sono semplicemente rant che ti sono venuti perché eri brillo e altri possono svilupparsi in articoli e ci vuole un occhio esterno per capire se il tuo spunto ha davvero possibilità di sviluppo verso il pubblico della testata. E l’editor è la persona che conosce meglio quella testata e il suo pubblico.
Ho pubblicato un articolo in cui spiegavo che in realtà Forrest Gump è un anime harem. Alcune idee, nate come più frivole, possono diventare un articolo più ampio. A volte lo spunto è troppo piccolo. Su queste cose ci vuole l’occhio dell’editor, che sulle testate più piccole tende a mancare
Convincere l’editor del tuo spunto è il primo test da superare.
È un discorso più collaborativo. È una persona che conosce il pubblico a cui ti stai riferendo e ti fornisce consigli su come tagliare quell’idea. Magari proponi un articolo e delle interviste e lui dice “sì, ma è ancora debole, tagliamolo in maniera più decisa” e poi ti accorgi che con quel taglio da un articolo normale improvvisamente hai ottenuto un taglio forte, che può anche essere riassunto con un titolo forte, che è importante soprattutto online. Non per forza vado dall’editor e piazzo la mia merce.
L’informazione videoludica è spesso confusa. Quanto è colpa di chi scrive e quanto di chi legge?
Secondo me è al 100% colpa del lato economico, di come funziona l’economia della notizia. I bisogni economici di come viene pagata la notizia creano una serie di perversioni che possono essere più o meno estremizzate a seconda delle ere e delle piattaforme. Siamo in un sistema di monetizzazione della notizia che non avvantaggia in alcun modo la qualità. Esistono cose che possono sfruttare anche in maniera costruttiva il sistema odierno.
Rispetto a un tipo di giornalismo usa e getta, per esempio, il giornalismo online permette di sfruttare gli “evergreen”, articoli che continuano a ricevere visite per lunghi periodi. È una forma di giornalismo che un tempo non avevamo con la carta stampata, mentre ora una testata online può permettersi di pubblicare un articolo che crei informazione per un lungo periodo. Quindi per me la colpa è che siamo obbligati a lavorare all’interno di questo sistema di produzione e distribuzione. Naturalmente c’è chi ci si trova particolarmente bene e chi crea delle vere e proprie economie di sfruttamento perché ha deciso di sfruttare queste perversioni, come le notizie false.
Un po’ il lettore è stato abituato dalle testate ad avere questo sistema di distribuzione e monetizzazione. Non è stato il videogiocatore a inventarsi il videogioco multigiocatore e a spingere tutto il videogioco verso la riduzione del costo per cui oggi bisogna puntare al free to play e a sistemi di monetizzazione che lo facciano sopravvivere anche se è gratuito. C’è stato un abbattimento dei costi.
Tutto questo ha alla base un sistema di distribuzione ed economia della notizia che si basa su notizie facilmente spendibili, con titoli efficaci, perché è quello che ti crea monetizzazione, e così via. Non è colpa del lavoratore né del consumatore. Sono entrambi piccole componenti di una marea che descriviamo come sistema economico e distributivo della notizia.
Molte persone che scrivono online sono autodidatte. Scrivere sui giornali di carta come Il Manifesto come ha plasmato il tuo modo di scrivere online?
Io appartengo assolutamente alla parte autodidatta dell’informazione videoludica. Il vantaggio dello scrivere su uno stampato, ed è qualcosa che ti resta anche dopo e vorresti preservare, è avere la possibilità di scrivere senza che il mio articolo debba attirare il suo stesso traffico. Le persone acquistano il quotidiano, leggono gli articoli all’interno ma non ogni articolo deve convogliare il suo traffico da solo: il quotidiano è un ecosistema, che vive insieme e costruisce un racconto. Alias de Il Manifesto, una doppia pagina per cui scrivo, si costruisce insieme con una redazione sincronizzata. Il risultato è qualcosa che è più del valore del suo complesso e viene distribuito e monetizzato nel suo complesso e non solo con il mio pezzo. Ciò ti permette di fare cose che altrimenti non potresti.
Nella mia rubrica, Margini Videoludici, parlo di giochi molto piccoli e sperimentali, che solitamente non hanno nemmeno un comunicato stampa per l’annuncio. Non sarebbe possibile parlarne su un sito online, perché un sito non può pagare una recensione di 900 battute di un videogioco ai margini del sistema produttivo del videogioco: è possibile solo su un quotidiano.
Online giochi anche secondo le regole di sistemi come Google, che un contenuto così breve non te lo classificano granché.
Sono possibilità che ti dà solo un quotidiano. Non stai vendendo un articolo, ma un ecosistema curato. È questa la cosa che più mi resta della carta stampata. Poi, naturalmente, ho scritto per Wireframe, nel Regno Unito, e lì erano articoli molto grossi che sono andati anche online. La possibilità di avere questo tipo di rubriche molto piccole e molto indirizzate, che parlano di cose che non attirano traffico, te la dà solo il sistema di distribuzione e monetizzazione del quotidiano.
Venendo io da un percorso da autodidatta, non ho portato tanto della carta stampata nell’online. Quando sono arrivato sulla carta stampata, anzi, mi sono reso conto che alcune cose che non ci sono mi mancano.