Ludenz è un progetto culturale indipendente che, tramite la rivista, i podcast, le dirette Twitch e il sito, offre spunti interessanti – e per certi versi inediti – sul videogioco e la critica videoludica.
Con Luigi Marrone, co-fondatore di Ludenz, ho voluto quindi approfondire questo aspetto e discutere con lui di cosa possa fare la critica videoludica per una buona divulgazione.
Massimiliano: Qual è il compito della critica videoludica?
Luigi Marrone: Credo che sia un compito ideale, vale a dire che dovrebbe avere un ruolo pedagogico ed educazionale. Qualcosa che difficilmente lo puoi rintracciare nella critica attuale, salvo in quelle che io definisco varie sacche di resistenza.
La migliore critica è quella foriera di rivelazioni; una critica creativa e libera e che non ha a che vedere con tutte le influenze che oggi assaltano la comunicazione online: i dati, i numeri, l’ossessione dell’informare, l’algoritmo, la capacità di visibilità sui motori di ricerca, uscire alla scadenza dell’embargo. Non sono cose che riguardano una critica culturale dei videogiochi che possa definirsi tale.
Il compito è di non essere rassicurante né socializzata, ma di poter accrescere la conoscenza di chi la sa accogliere. Per me si tratta di una critica che mi fa vedere qualcosa di un’opera che da solo non so formulare e che spinge la mia capacità autonoma di attribuire un valore soggettivo e personale all’oggetto criticato e non un consenso collettivizzato.
Una critica che indirettamente ti educa all’emancipazione e all’autonomia del pensiero affinché questo possa sentirsi libero e affinché anche il prossimo che si imbatte nel tuo pensiero possa produrre nuove rivelazioni. In Italia la critica è diventata sinonimo di recensione, consiglio, guida all’acquisto, suggerimento.
Oggi quando si parla di critica videoludica si parla di quella che hai appena descritto, mentre quella reale, più sofisticata, viene spesso respinta perché usa un lessico che le persone non sono abituate a vedere quando sono trattati i videogiochi: le persone non la capiscono, ritengono che sia un parlare troppo seriamente di qualcosa che non va preso seriamente. Perciò ti chiedo: la critica videoludica può essere per tutti?
Io non credo che debba essere per tutti. Credo che la critica debba avere la possibilità di esprimersi su diversi registri culturali, stilistici e intellettuali affinché chiunque si avvicini alla critica possa poi sviluppare un suo senso critico e sentirsi più vicino e in sintonia con i contenuti.
Dev’essere sfatata l’idea di una critica per tutti, bella pronta. Bisogna capire, invece, che richiede uno sforzo non triviale per comprendere certi meccanismi anche culturali e sociali che accadono quando si gioca e si scrive di videogiochi.
Io faccio sempre un esempio. A volte faccio baby sitting, per una coppia di amici, a una bambina di 5 anni. Quando lei non comprende qualcosa che io le dico, molto umilmente mi chiede cosa significa. È calma e attenta nel cercare di capire e ampliare il proprio orizzonte alfabetico.
Non vedo questo atteggiamento in chi consuma critica. A quel punto, poi, si creano quelle discrepanze che fanno dire “questa è critica alta, questa è critica bassa; io la critica alta non la accetto perché è accademica, è snob e voglio le cose oggettive che possano essere fruite senza un vocabolario in mano”. Questo non ci porta nella giusta direzione.
Pensi che ciò sia una deviazione di un modo in cui per molti anni il videogioco è stato comunicato dalle aziende? Qualcosa di pronto da fruire quasi passivamente e che non può fornire messaggi analitici e introspettivi? Il videogioco stesso ha vissuto un’evoluzione che ora stiamo vedendo anche nella critica.
Lavorando per PlayStation Magazine per anni, partecipando alle fiere di settore e sentendo le voci dei game designer e di chi crea i videogiochi, ho potuto ascoltare delle voci che sono diametralmente opposte al modo in cui poi i publisher presentano quel determinato tipo di videogioco.
Ci sono ampi campi culturali di riferimento, vasti e sterminati, a cui i publisher non sono interessati quando promuovono il videogioco perché devono parlare una lingua che sia promozionale, comune, e fare leva sulla macchina emotiva che è diventata l’apparato della sensibilità degli utenti.
Siccome chi fa critica si riferisce a questo tipo di linguaggio ed è strettamente connesso a chi crea questi contenuti promozionali, ovviamente ha abituato anche a un certo tipo di ascolto riguardo a come si parla di videogiochi, come se ne scrive e come li si intende.
C’è un forte collegamento verticale che va da chi produce e promuove i videogiochi a chi poi va a comunicarli e, magari in modo specializzato, deve anche capitalizzare attraverso il proprio lavoro di comunicazione, come i grandi portali specializzati in Italia, fino al consumatore che viene, in un certo modo, abituato a ragionare in certi termini, ad assimilare il discorso sul videogioco in certi modi.
In uno dei monocast di Ludenz hai detto che il plagio non esisterebbe se i testi di analisi videoludica fossero veramente personali. A quel punto un autore che a sua volta infondesse la propria personalità nei suoi testi non potrebbe appropriarsi della personalità altrui. Puoi espandere questo concetto?
Questo concetto deriva dal fatto che io sono un designer e curatore di corsi di scrittura creativa sia per società private sia scuole pubbliche, con studenti di qualunque età, da chi frequenta le scuole superiori agli adulti che si sono iscritti alla scuola privata che ospita il mio corso.
Lì ho notato che la ricerca della voce come identità stilistica, come ricerca dei registri che poi portano, attraverso lo stile, a una propria voce personale riesce a identificare molto bene l’autore di un testo. Dopo due mesi e mezzo di corso, ti saprei riconoscere chi ha scritto cosa senza la firma sulle loro produzioni.
In quel monocast, un formato in cui faccio dei monologhi riflessivi, dedicato al plagio, di cui in passato sono stato vittima, mi sono focalizzato, in particolare, sui contenuti che tu hai portato all’attenzione perché credo che la scrittura come identità sia qualcosa che si è perduto in una sorta di produzione industriale, anche nei modi di pensare di chi fa critica di videogiochi; quindi quando si scrive il plagio diventa un’attività quasi funzionale.
La critica si fa in maniera strumentale perché tutti si esprimono in certi modi che fanno perdere l’identità dell’autore, visto che tutti si esprimono allo stesso modo e quindi troviamo una critica che è plagiabile; contenuti che sono formalmente buoni, tanto che non ci interessa perdere la nostra voce quanto più rubarli per riproporli come se li avessimo scritti noi. Invece la scrittura dovrebbe sfociare da un percorso intimo di ascolto riflessivo e personale, che andrebbe a identificarci meglio e più profondamente e a darci la sicurezza che non saremo plagiati proprio perché c’è un lavoro interiore che viene fatto.
La critica culturalmente indipendente, le sacche di resistenza, puoi ancora riconoscerla come identitaria. Con la critica specializzata puoi fare il gioco delle carte intercambiabili e non sapresti chi ha scritto cosa e l’una varrebbe l’altra come analisi critica dell’espressione individuale.
È un monocast che mi ha colpito particolarmente. Una cosa che dico spesso è che il videogioco è incompleto senza la persona che ne fruisce e ci mette del suo perché c’è uno scambio fra il videogioco e la persona. Per cui nel momento in cui spersonalizzi il testo, togli la tua essenza che hai messo nel videogioco, nell’analisi che vuoi affrontare, stai persino sbagliando il compito principale nella stesura del testo.
La tua è una visione semiotica, che ha a che fare con i segni che il videogioco mette sul piano comunicativo. Sono d’accordo. Il videogioco è una realtà che ci interroga: se partecipiamo in maniera complice, riusciamo a rendere meraviglioso l’equivoco di aver fatto parte di un comparto digitale, quindi illusorio. Ciò per dire che se ci mettiamo del nostro, il testo videoludico riesce a stabilire un contatto con chi ne va a fruire in una maniera che è molto più emotivamente foriera di possibilità di esserne colpiti rispetto ad altre espressioni.
Non voglio togliere legittimità o screditare la potenza di un testo scritto o cinematografico o musicale; dico soltanto che l’interattività nel videogioco crea questa possibilità di vedere le reazioni alle nostre azioni.
Le reazioni diventano inevitabilmente referenziali: sono io che ho mosso il videogioco, non tu. Mentre in altre forme espressive stiamo tutti guardando lo stesso testo senza poter vedere che tipo di reazione il testo potrebbe avere rispetto alla nostra sensibilità.
C’è questo meraviglioso equivoco per cui quanto si entra nel flusso comunicativo con un videogioco ci sembra che la nostra interiorità stia scrivendo la ludonarrazione di un videogioco, sebbene sappiamo che non è così perché c’è una regia che prevede le nostre possibilità di azioni, i nostri incastri interattivi; eppure riusciamo ad avere questa illusione di compartecipazione al testo.
Questo secondo me è uno dei grandi pregi che scriverà sempre di più la comunicazione mediale con questo tipo di media.
La mancanza di mettere un po’ di se stessi nei testi critici, qualcosa che non stiamo vedendo estesamente applicato, è derivato dalla paura di esporre se stessi e di essere giudicati da chi poi legge il testo?
Ti potrei rispondere con una domanda: perché la maggior parte dei più giovani è più interessata a essere critici di videogiochi anziché di cinema o di libri? Il videogioco ti fa sentire protetto. È un ambito che strutturalmente e ontologicamente chiede una tua interattività, ma garantisce la tua incolumità sotto tutti i punti di vista.
Facendo sentire protetti, il videogioco educa psicologicamente a un’espressione individuale che sia socializzata, dove tutti si sentono all’interno di una cultura partecipativa in cui non c’è bisogno di esprimersi in modo intimo, di mettersi in gioco sia perché alla fine si sarebbe stritolati o dall’incomprensione altrui – oggi i registri si sono attestati su questa sicumera che è l’Internet, con dinamiche deresponsabilizzanti nei confronti degli utenti – sia perché è difficile mettere in gioco se stessi: mettere, dal punto di vista esistenziale, un contenuto che possa essere uno specchio della propria emotività che non tenga da conto l’ascolto e il potenziale dissenso che si creerebbe a livello sociale quando ci andiamo a esprimersi.
Ripeto, io ho maturato questa consapevolezza come curatore di corsi di scrittura creativa. Un corsista deve mettere in gioco se stesso perché da se stesso, a livello conscio e inconscio, crea la propria narrazione, la sua storia e la sua identità artistica e creativa. Io vedo una recensione come un ambito creativo e artistico; non come un ambito giornalistico che muore lì.
Alcuni videogiochi hanno un profondo impatto emotivo e in certi casi arrivano a esplorare finalità escatologiche. La sensibilità culturale per percepire queste sfumature, spesso sussurrate dagli stessi autori del videogioco e, come hai detto, nascoste dietro alla comunicazione degli editori di videogiochi, come può essere formata?
Innanzitutto credo che una sensibilità culturale vada formata con delle esperienze che prescindano dall’ambito comunicativo: bisogna fare esperienza di vita e poi rapportare quell’esperienza all’esperienza del pensiero. Quando si è giunti a un giogo fra le due realtà – quella del pensiero, intellettuale, e quella fisica, materiale – e si è imparato a esprimere tale risultanza, a quel punto una sensibilità arriva a educarsi da sé nel momento in cui si imbatte in un costrutto informativo come può essere il videogioco.
Credo che il videogioco parli in maniera differente a seconda dei giocatori. Potrei trovare nei giochi simbolici del passato dei discorsi che possono essere riferiti a fotografie e contesti estetici e psicologici di un tempo mentre qualcun altro troverebbe soltanto una rana che cerca di attraversare una strada e bisogna solo stare attenti che non venga schiacciata. Dipende dai contesti, dai momenti storici e da quanto vogliamo spingerci con l’interpretazione: la nostra sensibilità ci spinge ad attivare aree del pensiero che non abbiamo educato.
Non voglio dare tutta la responsabilità a chi produce i videogiochi. Molta della responsabilità la do, anzi, a chi fruisce dei videogiochi: è lì che un costrutto di un videogioco deve incontrare e valorizzare, se parliamo di critica culturale, un giocatore. Se non c’è questo dialogo, questa esperienza autoeducativa e di confronto e persino di fallimento con quello che è il risultato del vivere, delle aspettative tradite o della messa in campo delle proprie qualità e virtù; se non si crea questa possibilità di evolvere la propria sensibilità, allora non si crea una controparte culturale che ci porta a dare valore agli oggetti, anche mediali, come il videogioco in cui ci imbattiamo.
Mentre in inglese il termine play ha connotazioni eterogenee (giocare, suonare, persino recitare), il termine gioco, in italiano, può creare confusione. Perché il gioco è comunemente percepito come un qualcosa di afferente alla sfera delle emozioni e delle esperienze infantili e che, perciò, non appartiene alla vita adulta. Quando vi entra rimane materia per coccolare un proprio istinto di tornare all’infanzia, a giocare; una distrazione dal lavoro e dalle cose serie piuttosto che qualcosa da vivere per riflessione e introspezione. Come superiamo questo ostacolo linguistico, che poi viene traslato nella percezione del gioco e del videogioco?
Mi tiro fuori dalla possibilità di cambiare, come hanno provato a fare fino a oggi, il termine videogioco, che presume una nomenclatura che, se vogliamo, infantilizza lo scenario che va a rappresentare quando tale parola viene evocata. Non ci provo perché credo che la responsabilità culturale sia rimessa ai modi in cui si parla del videogioco e non a una definizione, anche se sicuramente può avere una sua presa percettiva e superficiale in chi ne va a trattare e chi si imbatte in questa parola e la deve riportare.
Penso che la responsabilità sia di come se ne parli al punto che se si muove il discorso attorno al videogioco, si può cambiare la percezione di ciò che è un videogioco e non farla riferire necessariamente all’ambito del disinteresse, del disimpegno.
È questo che dev’essere sfatato: se si vuole, il videogioco è il contrario di questa libertà e richiede un certo impegno nel comprenderne i contenuti di determinate opere. Se non si fa questo lavoro critico e culturale, la parola videogioco remerà sempre contro a chi vorrà sdoganare a livello percettivo ciò che restituisce.
A proposito di come si parla di videogiochi, una delle giustificazioni che viene fornita al modo in cui oggi si fa è che proporre analisi critiche più sofisticate e un discorso informativo più curato non riesce a coniugarsi con un contesto di grandi numeri, a cui le testate sono soggette. La critica videoludica fatta bene può coniugarsi con la sostenibilità economica al giorno d’oggi?
Dovrebbero cambiare i paradigmi culturali di diverse fasce di consumatori, quindi in maniera ampia e diffusa, e incontrare nuovi modelli economici di capitalizzazione del sapere, anche se è un’espressione problematica, affinché possa essere accettata anche da chi non ha possibilità di imbattersi in un certo tipo di critica perché l’algoritmo, o chi per lui, non glielo propone.
Necessariamente oggi quando si parla di numeri ci si scontra con il discorso critico e culturale. Ci sono troppi elementi restringenti rispetto a un’espressione che sia più feconda dal punto di vista intellettuale.
Io non ho una soluzione.
Dovrebbe esserci un cambiamento che provenga da una concertazione dei diversi attori che fanno critica. Se ci fosse un investimento governativo per quanto riguarda le testate giornalistiche registrate, queste riviste web, che porterebbe a cambiare, dietro alla ricezione di contributi, le strutture e contemporaneamente dare una parvenza che possa spingere l’evoluzione critica e intellettuale del videogioco su altri livelli, perché potrebbe darci prestigio a livello europeo o spingere altri creativi, probabilmente si creerebbe una possibilità di ristrutturare dalla base un apparato, il che andrebbe a rimbalzare su diversi aspetti: le università sarebbero le prime a incontrare un certo tipo di pensiero allineato, per esempio.
In Italia abbiamo il Milan Machinima Festival, che non ha copertura sui siti specializzati nonostante sia un festival internazionale. Credo che abbia iniziato quest’anno Everyeye. È un festival che parla di videogiochi, di declinazioni culturali e di linguaggi che dovrebbe interessare la maggior parte dei giocatori, che anche se non sono artisti digitali, magari sono interessati a vedere come vengono declinate le loro forme passionali.
Se ci fosse un contributo che spingesse su certi aspetti dei grandi portali, le università sarebbero interessate ad ampliare i talk e i panel, a portare il videogioco su altri livelli e spingerli anche fuori dall’Italia. Ci sarebbe più spazio per più voci indipendenti. Andrebbero a creare un precedente da cui poi trarre beneficio e poi tornare indietro quando viene messo a regime.
Queste sono solo idee che non sono quanto possa diventare realtà.
Ora vorrei parlare di Ludenz. Fra i canali che avete scelto per comunicare, ci sono anche dei volumi cartacei in un contesto editoriale e commerciale che per anni le ha rigettate. Perché avete scelto comunque questa strada?
Il progetto Ludenz è un progetto culturalmente indipendente ed è nato dopo che alcune delle personalità che vi contribuiscono sono uscite fuori da una realtà, Sprea Editori, che teneva le redini di PSM – PlayStation Magazine, realtà cartacea oltre che digitale.
Abbiamo deciso di continuare con una produzione cartacea – che non è una cosa semplice perché ci sono molti problemi rispetto al web, dalle logiche di costo e l’impaginazione fino a quelle produttive e di stampa: se ci sono dei refusi, una partita non può essere piazzata – perché eravamo interessati alla tecnologia del cartaceo rispetto al digitale.
Con una rivista, e non posso che fare a meno che scomodare l’ambito digitale, la lettura è asincrona: non hai idea di chi la leggerà e quanto. Il web è legato alle aspettative delle views, dei like, dei commenti; a tutto ciò che promuovendo e incensando la risposta veloce e persino disattenta influisce sui modi di produrre la scrittura.
La rivista cartacea include informazioni lineari: è un contenuto chiuso che richiede, nella lettura, un’esperienza concentrata e solitaria. La rivista cartacea promuove una calma neurale, un atteggiamento culturale che è più prolifico nel parlare di cultura, in questo caso, di videogiochi.
Il pensiero attraverso una rivista cartacea è interiorizzato, ti ritiri dal mondo. Non stai a pensare, a commentare, a condividere: è un’esperienza più intima, complice e personale.
Questo si rifà, come dicevo prima, all’atteggiamento ideale che bisognerebbe avere fruendo di contenuti videoludici. Un atteggiamento che sia introiettivo e non rimanga in superficie rispetto alla bellezza esteriore di un videogioco, ma consideri, invece, quanto si possa mettere di nostro quando la andiamo a interpretare.
Questo secondo me lo fa meglio una rivista cartacea – se è fatta bene. Non bisogna scrivere come se posti sulla rete, con la necessità di riempire le pagine e aspettare certi risultati. È piuttosto una ricerca nei titoli, nelle parole, in ciò che bisogna esprimere e in ciò che bisogna omettere: la rivista cartacea è una sfida, un campo in cui poter sperimentare, fare ricerca prima di esprimerci.
Il fatto che inibisca il like facile, che debba essere letta per poter commentare gli articoli è qualcosa che, secondo me, promuove una cultura dell’attenzione e della metabolizzazione, che fa bene alla critica culturale del videogioco.
Quali sono i criteri con cui scegli i giochi che porti su Twitch?
Sono criteri egoistici e personali. Non sono giochi che sono sulla bocca di tutti perché sono stati pubblicati di recente; anzi, spesso sono titoli che ho già giocato. Per questo dico egoistico: voglio ritrovare certe sensazioni.
Scelgo giochi che possano stimolare un certo discorso culturale e di commento critico sia da parte mia, che curo la diretta, sia da parte di chi è connesso e che, e di questo come Ludenz ci vantiamo, commenta molto. Ludenz inibisce il commento facile. Non dico che non siamo camerateschi; ma nel modo in cui impostiamo gli argomenti c’è una risultanza che è all’altezza del tono in cui le cose le presentiamo.
La dimensione di scelta è legata a ciò che potenzialmente può interessare al discorso culturale. E poi c’è la dimensione complice con chi sta esperendo assieme al caster, che al momento sono soltanto io su Twitch con Ludenz, che crea uno spazio di confronto che arricchisce molto il testo di quanto giocato. Il commento critico, la sua possibilità, è quello che va a determinare la scelta di certi titoli per Ludenz.
In questa intervista hai più volte usato l’espressione “sacche di resistenza” per definire sia Ludenz sia altri progetti italiani. Eppure, Ludenz usa la rivista cartacea: una tecnologia che per molti versi è superata. Definiresti Ludenz conservatore o reazionario?
Non rivedo il progetto di Ludenz all’interno di queste definizioni anche perché cerca di guardare attraverso le possibilità mediali in maniera convergente. La rivista include dei codici QR che rimandano ad articoli e contenuti che sono solo online e che sono disponibili solo per gli abbonati.
Io penso che Ludenz sia un po’ di frontiera come progetto nel porsi sull’orizzonte che va ad abbracciare, in maniera crossmediale, diverse forme espressive.
La rivista può sembrare un retaggio del passato, ma secondo una visione tecnologica che le abbiamo attribuito il discorso culturale che va a creare non è certo del passato; anzi, noi pensiamo che crei un precedente che in futuro potrà essere imitato, e noi lo speriamo, affinché le due dimensioni tecnologiche, quella del web e quella cartacea, possano convivere e creare qualcosa di ancora più potente.