I danni della disinformazione sono chiari.
Se ne parla talmente tanto che ho poco altro da aggiungere: non leggere giornali né connettersi a qualunque altra forma di comunicazione significa non essere collegati con il mondo circostante e non comprendere adeguatamente le dinamiche sottostanti all’evoluzione della società.
Si parla molto meno dei danni della cattiva informazione, che è infida per sua natura: perché una quota di quanto riportato è veritiera, ma il racconto è decontestualizzato, impreciso o fuorviante. Perciò, una notizia scritta male finisce per essere più dannosa della mancata notizia: un titolo volutamente esagerato, per esempio, può dare un’impressione sbagliata di una situazione; una notizia che manca di riferimenti non dà a chi legge gli strumenti per comprendere il contesto, la natura e persino il significato di qualcosa che è successo.
Quando una persona lascia un articolo informata peggio di prima che lo leggesse, l’informazione ha svolto il proprio compito in modo tanto sbagliato quanto la disinformazione che in teoria si prefigge di contrastare e innesca quelle dinamiche che alimentano il cattivo ricircolo delle informazioni.
La cattiva informazione nasce da una cattiva gestione del lavoro giornalistico; delle persone che compongono una redazione, che scrivono ogni giorno e che sarebbero demandate a verificare, correggere, filtrare e adeguare le informazioni che sottopongono, poi, alle persone. Il cattivo lavoro giornalistico nasce dalla mancanza di progetti che siano finalizzati prevalentemente all’informazione e non alla monetizzazione dell’attenzione; e quest’ultima, infine, nasce da un sistema economico che ha svilito l’informazione fino a renderla succube di algoritmi e SEO.
Un percorso che ha fatto perdere valore all’informazione, trasformando il risultato in una profezia autoavverante: l’informazione non viene supportata né sopportata più perché ritenuta colpevole di tanti errori e nel cercare di far tornare le persone a leggere ha perso il proprio ruolo e la propria identità.