Nelle scorse settimane, si è tornato a parlare di come vengano considerate le videogiocatrici e, più in generale, chi si rappresenta nel genere femminile e lavora nel settore dei videogiochi. Dapprima è stata una serie di statistiche condivise da Horizon Psytech, che hanno dipinto un quadro dove le personalità femminili faticano a vivere il medium con una certa, auspicabile, serenità; che ha poi dato origine a post più riflessivi, come questo della caporedattrice di Spaziogames, Stefania Sperandio, che ha condiviso la sua esperienza.
Nel primo caso, in risposta al post di Horizon Psytech, molti commenti hanno illustrato un modo di intendere il videogioco che è ancora arretrato: le donne giocano soprattutto a videogiochi minori (come vengono visti erroneamente quelli per smartphone, per esempio) oppure non sono altrettanto brave quanto i loro equivalenti maschili.
Quest’ultimi invece tendono a voler difendere, in tanti casi, un mezzo (il videogioco) che per lungo tempo – e per certi versi ancora oggi – continua a coccolare l’utente maschio eterosessuale: i personaggi femminili sessualizzati (seno prosperoso, atteggiamento ammiccante e vestiti volutamente succinti) sono uno degli esempi più evidenti di questa tendenza. Negli ultimi anni qualcosa si è mosso: come le protagoniste di The Last of Us: Parte 2, di cui una esplicitamente lesbica (è solo un esempio del panorama mainstream).
Per sfidare questa tendenza, IIDEA (l’associazione di categoria in Italia) ha realizzato la rubrica Game to Women: sviluppatrici, PR, team manager che raccontano la loro esperienza. Ma sono piccoli movimenti.
Non devi pensare però che sia solo un problema italiano: il GamerGate è stato un movimento nato sui forum internazionali; la discriminazione di genere nei videogiochi e negli esport è un grosso problema anche in Cina.
La situazione in Italia e nel mondo
Per capire meglio le dinamiche di questo fenomeno ho fatto qualche domanda a Micaela Romanini, fondatrice di Women in Games Italia, organizzazione no profit che mira a sensibilizzare sulle opportunità professionali nell’industria videoludica per il genere femminile e, più in generale, combattere gli stereotipi di genere.
Massimiliano: Quanto negli ultimi anni il videogioco mainstream ha cercato di allontanarsi dall’ipersessualizzazione dei personaggi femminili che lo hanno accompagnato?
Micaela Romanini: Negli ultimi anni la rappresentazione di genere nell’industria è cambiata moltissimo. È una tematica molto attuale su cui si sta ponendo grande attenzione. Abbiamo visto che il 70% dei protagonisti dei giochi presentati lo scorso anno durante l’E3 dalle grandi aziende era femminile. Ciò ha segnato un cambiamento epocale: i personaggi femminili non sono uno sfondo, come la solita principessa da salvare, o il personaggio ipersessualizzato che rappresenta una sorta di premio per il giocatore; bensì un vero protagonista realizzato in modo efficace. Si parla anche di tematiche dell’orientamento sessuale.
Nonostante questo ci sono numerose ricerche che fanno capire che non tutti i giocatori si sentono ancora rappresentati all’interno del videogioco e viene chiesta una maggiore diversità, soprattutto nelle saghe più conosciute.
Perdona il cinismo, ma quando parliamo di grandi aziende parliamo spesso di società quotate in borsa. Questa revisione del personaggio femminile, spesso protagonista e più sfaccettato, è stata una spinta dall’interno o una reazione al mercato che sta cambiando? È il frutto di una nuova maturità o di un’esigenza commerciale?
Sicuramente questa tematica è così attuale e delicata che l’industria non può più far finta che non esista. Sicuramente ha avuto una grandissima spinta a trattare queste tematiche il fatto che sono la società e la community a chiederlo. Alcune pratiche e alcuni esempi di come questi protagonisti sono stati inseriti fanno pensare a occasioni un po’ spinte dal marketing per promuovere il gioco vero e proprio. Quando si tratta di rappresentare tematiche importanti come quello transgender, che riguarda tantissime persone e sono temi delicati, è consigliabile che le grandi aziende chiedano consulenza e aiuto a professionisti che si occupano dei temi della diversità o che loro stessi hanno affrontato. Altrimenti si finisce a dare una visione stereotipata.
Che a parlare delle donne siano gli uomini, per dire…
Sì, esatto.
Nel 2019 le videogiocatrici in Italia erano il 47%. Nel 2020 il 44%, comunque una porzione corposa. Eppure, quando si guarda al videogiocatore sembra quasi unicamente maschio. Perché? La popolazione videoludica maschile fa più rumore o c’è altro?
Penso che i dati di quest’anno siano un po’ diversi anche perché IIDEA si è appoggiata a un’azienda diversa e quindi magari l’aggregazione dei dati ha dato risultati diversi. Ciò che vediamo da studi di Newzoo o di Quantic Foundry è che c’è una differenza molto importante per quel che riguarda le piattaforme usate per giocare. Sono emersi molti studi che indicano che il 50% dei giocatori sono donne. Da una parte è vero, dall’altra non lo è: quella percentuale vale soprattutto per il mobile. C’è poi da dire che i giochi mobile considerano anche una fetta di giocatori casual in cui rientra magari anche la casalinga che gioca ogni tanto.
Sono indagini molto ampie che gonfiano un po’ i numeri includendo anche persone che giocano molto poco.
Sono interessanti anche dati come quelli di Quantic Foundry che mostrano anche la differenza di genere e come queste diverse categorie di giocatore si avvicinano a un genere o all’altro: i giochi più giocati dalle donne sono i giochi di ruolo, i titoli casual, i social games. Mentre ci sono alcune categorie, come i giochi sportivi, che arrivano a una percentuale di giocatrici del 2%. Anche qui l’industria può fare un lavoro importante per attirare più videogiocatrici. Alcune ricerche fanno vedere come viene utilizzato il gioco mobile: se pensiamo ai giochi “freemium”, che prevedono degli acquisti in-app, spesso le donne sono quelle che pagano di più. Raggiungere un pubblico femminile e diversificarsi porta quindi anche un vantaggio economico per le aziende che riescono a farlo.
Una certa repulsione da parte di una fetta della comunità di videogiochi, secondo te, è specifica di questo settore o è parte di un fenomeno più largo che coinvolge anche i social network, per esempio? Insomma, è un problema specifico dei videogiochi o rientra in un contesto più grande?
Il videogioco rientra nel settore della tecnologia e le donne vengono considerate non adatte a parlare di questi temi a causa di stereotipi culturali. Le donne sono meno presenti in queste industrie perché queste non si presentano come ambienti favorevoli per attirare le professioniste. Io ci inserirei anche settori limitrofi: in quello sportivo ci sono tanti pregiudizi rispetto, per esempio, al calcio femminile, che non è seguito e conosciuto come quello maschile, sebbene ultimamente vengano portate avanti iniziative di sensibilizzazione. Rientra quindi in un discorso che tocca tutti quei settori storicamente maschili.
Perché una parte dei videogiocatori si sente minacciata dalla maggior presenza di giocatrici, come se la loro esperienza perdesse di valore se a quella stessa esperienza giocano più donne rispetto a prima?
Si viene a creare una concezione di club privato, dove si tengono a escludere persone che vengono considerate “diverse”. Succede soprattutto nell’ambito degli hobby e dell’intrattenimento. È una visione arretrata e primitiva della società, però accade. Succede nel videogiochi e negli esport, dov’è ancora più evidente: casi di cyberbullismo che hanno coinvolto streamer e atlete sono ancora molto presenti.
Women in Games Italia si è posta l’obiettivo di raddoppiare le professioniste attive in Italia in 10 anni. Come?
Promuoviamo i valori della diversità e dell’inclusione di genere nei videogiochi e nell’industria. Women in Games Italia è nata a marzo 2018. In questi anni abbiamo fatto un grande lavoro in collaborazione con l’associazione internazionale Women in Games portando le professioniste dell’industria a parlare nei panel e nelle tavole rotonde. Siamo state anche presenti al Parlamento Europeo per un evento. Parliamo molto spesso di queste tematiche per educare le studentesse, le scuole e le famiglie sulle opportunità dell’industria del videogioco, che è un’industria globale con tantissime professioniste che vi lavorano. Cerchiamo di far capire che ci sono numerose professioni in cui si può lavorare nel settore videoludico.
Da una parte c’è la concezione che per lavorare nell’ambito tecnico le donne debbano essere quasi equiparabili agli uomini; ma è una concezione sbagliata e molto primitiva. Cerchiamo, quindi, di far capire che ci sono in realtà tantissime professioni dove si può lavorare, come in altre industrie: nella comunicazione, nel marketing, nel design, nella programmazione. Facciamo un lavoro di educazione all’interno della società e delle famiglie per far conoscere le opportunità legato al videogioco.