Per l’approfondimento di questa settimana, ho intervistato Jack Gutmann. Una persona con un passato complicato: è fuggito dalla Siria durante la guerra civile, nel 2014, per rifugiarsi in Europa dopo aver attraversato centinaia di chilometri. Ma non voglio anticipare niente.
Semmai, parlare con lui mi ha fatto riflettere su una cosa.
Ho intervistato Gutmann perché nel 2017 è uscito Path Out, videogioco in cui racconta una parte della sua storia. Quella della fuga dalla Siria. Una delle domande che avevo in testa – e che finalmente, sette anni dopo, sono riuscito a porgli – era: ma perché proprio un videogioco?
Avrebbe potuto scrivere un libro. Oppure registrare un video da pubblicare sui social network. Tutti metodi più semplici, se vogliamo, rispetto a creare un videogioco e che, forse, avrebbero garantito un pubblico più ampio.
Riflettendo fra me e me su questo aspetto della sua storia, è emersa una constatazione: raccontare la propria storia attraverso un videogioco rende la persona protagonista incredibilmente vulnerabile.
Ci vuole un grande coraggio a rendere la propria vita un videogioco.
Perché in un libro la persona che legge è passiva: le parole sono quelle. Si può leggere velocemente o lentamente, ma le parole non cambiano. Un brano musicale resta lo stesso: si può mettere in pausa o smettere di ascoltarlo; ma le note e il testo rimangono uguali.
In un videogioco in cui ci si inserisce come protagonisti, per mezzo di un avatar più o meno realistico, si sta implicitamente dicendo a chiunque giocherà: “Quella persona sono io. Vesti i miei panni”.
Ed è questo l’atto di coraggio.
Quante persone riuscirebbero a vedere se stesse, “mosse” da un’altra persona in un contesto dai tratti persino tragici?
E quante potrebbero sopportare di non vedere se stesse nel modo di giocare di un’altra persona?
E quante sarebbero capaci di vedere una propria replica virtualizzata nello stesso contesto che le ha fatte soffrire?
Io non riuscirei. Anche per questo scrivo per esprimermi: è tutto sotto controllo.
Il videogioco è anche questo. Un mezzo così potente, così diffuso e così popolare al punto che alcune persone scelgono di trasferire la propria esperienza in esso per metterla a disposizione delle altre persone. È la cosa più vicina che abbiamo a far vivere una piccola parentesi di una vita.
Come dicevo, è un atto di coraggio.
Massimiliano
Nel 2017 ho giocato a Path Out. È un videogioco gratuito, ancora disponibile su Steam, in cui si impersona Abdullah Karam. Un giovane uomo che nel 2014 è fuggito dalla Siria, in cui perversava una guerra civile. E che poi aveva scelto il mezzo videoludico per raccontare la sua storia.
Da quel momento, e negli anni a seguire, ho continuato a chiedermi: ora sta bene? Dove vive? Magari ha trovato lavoro nell’industria dei videogiochi?
Così, qualche giorno fa – anche alla luce di tutto quanto sta accadendo in Siria – ho iniziato a cercare qualunque informazione che potesse darmi delle risposte. Interviste, video, articoli, notizie. E non ho trovato niente. Sembrava che Abdullah Karam fosse sparito nel nulla.
Solo dopo aver contattato Causa Creations, con cui Karam ha collaborato per lo sviluppo di Path Out, ho scoperto perché: l’uomo che stavo cercando non esiste più. Perché nel frattempo ha cambiato nome. Oggi si chiama Jack Gutmann.
E ha ottimi motivi per aver cambiato nome.