Hanno fatto molto discutere alcune affermazioni di Jean-Briac Perrette, presidente dei videogiochi e dello streaming globale di Warner Bros. Discovery, la società nata dalla fusione di Warner Bros. e Discovery, appunto. Durante un evento della banca Morgan Stanley – quindi inquadriamo già il tipo di pubblico – ha parlato di come la società voglia puntare più sui videogiochi live service e mobile, che garantiscono introiti continuativi.
Se n’è discusso perché tali affermazioni sono arrivate in un momento molto specifico di Warner Bros. Games: ossia quello in cui Hogwarts Legacy – che è un videogioco a giocatore singolo, molto canonico per tanti versi – ha venduto 12 milioni di copie in due settimane, quando è stato pubblicato nel 2023, ed è stato il primo videogioco che non è Call of Duty al vertice della classifica annuale dei videogiochi più venduti negli Stati Uniti dal 2008; mentre Suicide Squad: Kill The Justice League – che invece rientra nel profilo che Perrette ritiene sia auspicabile vedere più spesso – ha registrato risultati molto deludenti, sebbene, forse, prevedibilmente.
Ma secondo me sono altre le parole di Perrette su cui dovremmo soffermarci e che dovrebbero farci preoccupare di più. Più delle strategie commerciali di Warner Bros – che sono discutibili, legittime, non legittime: se ne può parlare.
Perrette ha anche detto: “Piuttosto che lanciare semplicemente un gioco per console fatto e finito, come possiamo sviluppare un gioco basato, per esempio, su Hogwarts Legacy o Harry Potter, cioè un live service in cui le persone possono entrare, vivere, lavorare, costruire e giocare in quel mondo in modo continuativo?”.
Per Perrette, che presiede alla grande area dei videogiochi di un editore come Warner Bros, il modo migliore di intendere il videogioco è uno solo: una prigione virtuale. Dove ogni cosa è funzionale al mantenimento della persona all’interno di questa prigione virtuale: dove può “entrare, vivere, lavorare, costruire e giocare”, preferibilmente “in modo continuativo”. Una seconda vita (la citazione è voluta).
Non si parla di qualità, non si parla di esperienza; non si parla nemmeno della necessità o meno di pensare al videogioco in questo modo. L’importante è che l’utente resti lì dentro e magari sia anche intontito dagli stimoli virtuali al punto da spendere: questo è il messaggio fra le righe. Perché se tutte queste attività le fai senza spendere, allora non ci piaci: anche questo messaggio è fra le righe. Perché l’infrastruttura non si paga da sola, lo sviluppo dei contenuti aggiuntivi non si paga da solo e via dicendo.
E Perrette non è solo. Perché per Andrew Wilson, amministratore delegato di Electronic Arts, l’Intelligenza Artificiale generativa servirà sia a rendere più efficiente lo sviluppo sia a creare esperienze personalizzate che allora possano attecchire di più sugli utenti; e quindi migliorare la monetizzazione.
Durante la sua intervista allo stesso evento, Wilson ha detto: “E quindi il modo in cui pensiamo a questo [la trasformazione garantita dall’IA] è: come possiamo costruire queste cose per essere più efficienti? Come costruiamo queste cose per permetterci di costruire esperienze più profonde, più ampie e più personali? E poi come possiamo darlo al mondo? E una volta che lo dai a un mondo in cui ci sono 3 miliardi di giocatori che creano contenuti personali, espandono e migliorano gli universi che creiamo, e costruiscono e creano il proprio universo sulla nostra piattaforma tecnologica, all’improvviso noi siamo i beneficiari dell’economia delle piattaforme”.
Per molti dirigenti i videogiochi sono come dei supermercati, con i dolcetti messi vicino alla cassa così che nell’attesa sei più suscettibile e cedi facilmente: così infili nel carrello anche quelle barrette di cioccolato che altrimenti non avresti comprato. Fino all’ultimo minuto l’intento è farti spendere, anche solo qualche decina di centesimi di euro.
Prigioni virtuali. Metaversi dove spendere e spandere su contenuti che di umano avranno sempre di meno. Lo trovo più preoccupante di Suicide Squad.
Massimiliano
“Inizi a pensare se siamo noi che ci dobbiamo guardare allo specchio o se ci sono altri problemi in gioco”. A parlare è Koen Deetman, co-fondatore di Keoken Interactive, in un’intervista a Gamesindustry. La situazione in cui si trova lo studio è rappresentativa di un problema più generalizzato che stanno affrontando gli sviluppatori: la difficoltà a trovare i fondi per sostenere lo sviluppo. O tramite un editore o tramite un investitore esterno. Nel corso degli ultimi tre anni, Keoken Interactive ha proposto cinque giochi a 40 editori: un totale di 200 pitch (così viene chiamata la proposta di un progetto). Tutti andati a vuoto.
“Comprendiamo che alcuni giochi non vengono accettati o non dovrebbero essere fatti”, ha aggiunto Deetman. “Ma creare, adattare e riproporre cinque giochi diversi a più di 40 editori ed essere continuamente rifiutato perché è troppo unico, non è abbastanza unico, il budget è troppo alto, il budget è troppo basso, è troppo commerciale, non è abbastanza commerciale…”