Il modo in cui le grandi società si sono prese il videogioco – attraverso gli ambienti digitali chiusi delle console, il posizionamento dei loro marchi in luogo dei nomi delle persone e altri modi ancora – ha creato una sovrapposizione complicata. Oltre a tutte le sovrapposizioni che già ci sono, intendo.
Ribaltando la questione, le grandi società sono ritenute il videogioco come se ne fossero espressione diretta; anzi, la fonte stessa. Perciò, succede che ogni qualvolta una grande società si trova in difficoltà o comunque in un momento di transizione – vuoi per un calo di vendite, vuoi perché sta cambiando la sua strategia – ho l’impressione che si metta in dubbio la durata stessa della vita del videogioco. Detto più direttamente: che se un giorno mai PlayStation o Xbox, per dire, dovessero decidere di non fare più console, allora finirebbe tutto. Ci toglierebbero i videogiochi.
Nessuno penserebbe che i libri potrebbero finire male se Mondadori o qualunque altro grande editore dovesse fallire. Eppure, le scatole di plastica e circuiti che sono le console hanno condizionato, e condizionano ancora, così tanto la percezione stessa di cos’è un videogioco e che forma e sostanza abbia, al punto che un’eventuale perdita di una di queste viene oggi considerata un segno apocalittico.
Nonostante in passato ciò sia davvero accaduto e si sia andati avanti: è capitato ad Atari, Magnavox e Mattel negli anni 80; è successo a SEGA negli anni Duemila. Sony stessa ha smesso di produrre console portatili. Eppure, i videogiochi sono andati avanti. Qualcun altro ha preso il loro posto; il settore si è stratificato; sicuramente è molto cambiato. Lo stesso discorso è applicabile anche ai moderni sistemi di distribuzione digitale, come Steam o Epic Games Store o GOG.
Esistono centinaia di aziende e migliaia di persone che ogni giorno lavorano ai videogiochi. Molte di queste, certo, sono all’interno delle grandi società – e ce lo hanno ricordato i bruschi licenziamenti degli ultimi due anni – ma ciò non significa che tali grandi società siano diventate proprietarie del videogioco. Sono proprietarie dei marchi; e quindi di Halo, di God of War, di Super Mario, di Grand Theft Auto. Questi sono aspetti ed elementi commerciali, industriali.
Ma ormai il videogioco, inteso come mezzo creativo, comunicativo, persino artistico, si è affermato ed è diventato parte integrante del discorso culturale: non esiste un futuro in cui, a un certo punto, smetterà di esserci, semplicemente.
Le aziende andranno e verranno, com’è sempre stato. Ma il videogioco resterà.
Massimiliano
Alla fine, tutto è passato senza che ci fosse una tempesta. Nella serata italiana del 15 febbraio, Phil Spencer (amministratore delegato di Microsoft Gaming), Sarah Bond (presidente di Xbox) e Matt Booty (responsabile degli Xbox Game Studios) hanno fornito un aggiornamento di business sulla futura visione di Xbox. In altre parole: come intendono gestire l’esclusività dei loro videogiochi e quali portare sulle console PlayStation e Nintendo.
Per ora, Spencer ha solo detto che saranno quattro i giochi oggi disponibili solo per Xbox e PC che verranno portati altrove, ma non ha detto quali, lasciando tempo ai rispettivi sviluppatori di organizzare l’annuncio come meglio credono.
Due saranno “guidati dalla comunità” (leggasi: videogiochi online) e “che hanno raggiunto il loro pieno potenziale su Xbox e PC”. Per crescere ancora, quindi, hanno bisogno di ulteriore pubblico, che si trova altrove, sulle piattaforme concorrenti. Gli altri due videogiochi, invece, non sono mai davvero stati pensati per essere un’esclusiva.