Un’altra edizione dell’E3 è alle spalle. La ricorderemo sicuramente perché si è svolta completamente online: per la prima volta chiunque, giornalisti inclusi, ha vissuto il principale appuntamento annuale videoludico in streaming. Una cosa, invece, non è cambiata: ci si aspetta sempre qualche sorpresa; un annuncio imprevisto, un’incredibile produzione in sviluppo che nessuno ancora conosceva. La “bomba” di fine conferenza, come accadeva tanti anni fa. Fammi spiegare perché, secondo me, questo atteggiamento è inutile.
Primo: negli ultimi anni il mercato videoludico è molto cambiato. Anni fa, i principali eventi videoludici erano quattro: la Game Developers Conference a marzo, perlopiù incentrata sugli addetti ai lavori; l’E3 a giugno; la Gamescom ad agosto, che spesso riproponeva molti dei contenuti già visti all’E3; il Tokyo Game Show a settembre, che spostava il focus, naturalmente, sul mercato giapponese.
Nel frattempo, le cose sono cambiate:
- ci sono i Nintendo Direct, gli appuntamenti preregistrati di Nintendo che vengono organizzati più volte l’anno;
- i The Game Awards di dicembre sono passati da evento dedicato alla premiazione dei migliori giochi dell’anno a palcoscenico per anteprime e annunci;
- Microsoft e Sony hanno a loro volta intrapreso la strada degli appuntamenti periodici: da una parte l’annuale X e gli Inside Xbox; dall’altra gli State of Play;
- vanno considerati anche altri eventi annuali come Paris Games Week, BlizzCon e QuakeCon.
Hai capito: le occasioni per annunciare nuovi prodotti sono molte di più; quindi è naturale che l’accentramento sull’E3 non esista più e di conseguenza gli annunci “bomba” siano molti meno.
[Bonus: In un’industria dove il mercato console è una minoranza (per numero di utenti, sviluppatori e giro d’affari), percepire ancora l’E3 come l’epicentro è fondamentalmente sbagliato].
Secondo: l’effetto sorpresa dura poco. Proprio per esaudire il costante appetito di annunci eclatanti di molti utenti, spesso gli editori annunciano i giochi prima ancora che la fase di produzione abbia inizio: quando il gioco, praticamente, è un’idea, quasi una lettera di intenti. Altre volte, lo sviluppo è appena all’inizio e quindi fra l’annuncio e la successiva presentazione possono persino passare anni. Così dopo l’entusiasmo dell’E3, gli utenti si trovano con in mano niente; a quel punto, aspettano la prossima sorpresa a cui aspirare.
Alcuni esempi:
- all’E3 2018 Bethesda ha annunciato The Elder Scrolls 6 con un brevissimo filmato in cui di gioco non si vede assolutamente niente. Da allora non si è più visto e Todd Howard, produttore esecutivo di Betheda Game Studios, disse che sicuramente arriverà dopo Starfield, un altro videogioco realizzato da Bethesda, che è programmato l’11 novembre 2022;
- a fine 2017 e a giugno 2018 Nintendo annunciò rispettivamente Bayonetta 3 e Metroid Prime 4. Da allora, del primo non si è più saputo niente, mentre nel 2019 lo sviluppo di Metroid Prime 4 è stato riavviato perché i risultati fino ad allora raggiunti non avevano soddisfatto Nintendo;
- dopo essere stato annunciato all’E3 2019 sono passati due anni prima che si sapesse qualcosa di più su Elden Ring, il prossimo gioco di From Software (Dark Souls, Sekiro), riapparso alla conferenza di Xbox e Bethesda all’E3 di quest’anno;
- all’E3 2007 Rockstar Games, lo sviluppatore di GTA, annunciò Agent come esclusiva PlayStation 3. Nonostante la pagina dedicata sul sito ufficiale sia ancora online, il gioco è di fatto stato abbandonato.
Mi fermo qui, ma gli esempi sono molti e in tanti casi coinvolgono l’E3.
Il sogno è quello di avere annunci eclatanti a ogni occasione. La realtà è che ciò comporta presentazioni forzate dove spesso il gioco nemmeno c’è oppure bisogna poi attendere tantissimo tempo prima di vederlo pubblicato. Per cui, un E3 meno appariscente, ma pur denso di contenuti come quello appena passato è ciò che auspico anche in futuro: meno sogni e più realtà.
SI PUÒ SCRIVERE DI ESPORT A TEMPO PIENO?
In passato, ho condiviso l’esperienza di chi fa ogni giorno critica videoludica. Oggi vi riporto una chiacchierata che ho fatto con Francesco Lombardo (lo potete seguire soprattutto su Twitter, Twitch e YouTube), che ha firmato e continua a firmare articoli di esport per testate generaliste e specializzate come Il Fatto Quotidiano, Everyeye, Ultimo Uomo ed Esportsmag.
Spesso parliamo di quanto sia difficile la situazione dell’informazione sugli esport in Italia, ma all’estero non è meno fragile: lo scorso anno ESPN ha chiuso la sezione sugli esport senza pensarci troppo. Oggi si può fare il giornalista di esport a tempo pieno?
Qualcuno ce la fa. Come nel resto dell’editoria, tutto dipende dai numeri. Chi riesce a farlo oggi è perché lo fa in inglese e quindi si rivolge a un pubblico internazionale e si concentra su certi giochi. Se parlo in inglese di League of Legends, so che raggiungo un certo numero di lettori. Ma se parlo di un titolo minore, anche se lo faccio in inglese, ho qualche difficoltà. La figura del giornalista di esport deve evolvere in una figura pubblica, che quindi non faccia solo contenuti scritti, ma faccia anche video, interagisca sui social e si butti nella mischia.
E tu come vivi i social network per il tuo lavoro? Sei molto attivo.
È inevitabile, ormai. Un giornalista oggi non può più farlo in modo passivo, scrivendo il pezzo alla fine di un evento e aspettare che venga pubblicato. Grazie alle nuove tecnologie, soprattutto al fatto che molto si racconta online, è necessario farlo in modo attivo, anche rispondendo ai commenti sui social, sui forum e sui siti. Oggi un giornalista deve essere anche questo.
C’è una discrepanza, secondo me, negli esport: un’escursione economica fortissima fra i maxi-investimenti delle grandi realtà e il lavoro quotidiano dei giornalisti e delle piccole squadre. Gli esport vengono definiti una grande svolta dell’intrattenimento, ma poi si fatica a farne un lavoro regolare. Come la vedi?
È complicato. Se prendiamo le squadre italiane, quelle che riescono a mantenersi solo con gli esport sono poche. Il problema è questo. Se guardiamo le più grandi organizzazioni internazionali, è questione di numeri: nessuna di loro riuscirebbe a sostenersi nel medio-lungo periodo solo con gli esport nudi e crudi. Hanno bisogno di fare contenuti, di avere delle star, delle figure con cui poter generare interesse e attenzione mediatica agli occhi degli eventuali sponsor e di chi vuole investire. Lo stesso dovrebbero fare anche le piccole realtà. Le squadre italiane, da questo punto di vista, ci stanno provando e c’è chi ci riesce di più, chi riesce di meno e chi non ce la fa. Gli esport sono stati presentati innanzitutto come competizione, poi però si sono evoluti e sono diventati un contenitore enorme in cui dentro c’è un po’ di tutto e soprattutto c’è tanto intrattenimento. È qualcosa in cui gli americani riescono benissimo: trasformare tutto in uno spettacolo.
Pensi che si possano far interessare agli esport le persone che non seguono i videogiochi?
Sì, indubbiamente si può fare. Non penso che seguire i videogiochi sia vincolante per seguire poi gli esport. Sicuramente è necessario che chi inizia a seguire gli esport venga istruito ed educato: alcuni contenuti sono intuitivi, ma altri non lo sono, tipo League of Legends e Dota. In quei casi, serve spiegare che cosa sta succedendo durante le partite. Ciò non toglie che aiuti giocare per capire determinati aspetti; ma non è necessario farlo, ci sono talmente tanti contenuti per poterli conoscere. Anche i caster fanno questo: oltre a raccontare cosa succede azione per azione spiegano a un pubblico neofita come funziona il gioco.
Hai scritto per Il Fatto Quotidiano, Ultimo Uomo, Everyeye, Esportsmag e Corriere dello Sport, fra gli altri. Secondo te cosa la stampa generalista dovrebbe imparare da quella specializzata e viceversa?
La stampa generalista dovrebbe avere più coraggio nel proporre articoli di esport. Non tutti lo vogliono fare e in Italia ci sono quelli che ci hanno provato e poi si sono arresi; chi non ha ancora capito come vadano trattati gli esport e che contenuti servano. Ci vuole più coraggio, anche affidandosi a persone esperte in questo ambito piuttosto che cercare di improvvisarsi e non trovare la quadra del cerchio. Senza coraggio e senza il sostegno economico non arrivano i risultati. Però serve tempo. Oggi gli esport non sono un settore da cui si può pretendere di rientrare in certi investimenti o di vedere i risultati nel breve periodo. La stampa specializzata invece può imparare come creare una community, come costruirla. Non è affatto semplice. Mentre la stampa generalista ha quel palco enorme di lettori o spettatori, è più difficile per la stampa specializzata ed è anche da lì che bisogna puntare per divulgare di più gli esport.
Dallo sport tradizionale gli esport hanno ereditato la caratteristica che ha meno senso: i tornei solo femminili. Secondo te perché?
I regolamenti dei tornei non vietano per iscritto un genere. Ci sono tornei solo femminili, ma non esistono tornei solo maschili. Nell’ambiente però c’è un problema di maschilismo: le ragazze che giocano online arrivano a non usare la chat vocale perché se gli altri giocatori della squadra, che spesso sono soprattutto maschi, lo sanno, non le vogliono o giocano diversamente. Se trasmettono in streaming, allora gli utenti insultano e suggeriscono che stia barando o che se è riuscita ad arrivare fino a quel livello è solo perché qualcun altro, un maschio, l’ha aiutata. Nemmeno io vedo di buon occhio i tornei solo femminili, ma sono necessari per dare visibilità a queste giocatrici.