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Io non sono contrario ai remake. Io per primo ne ho fruito e ne fruisco, talvolta. Quello che mi chiedo, semmai, è: quali giochi sono intitolati a diventare dei remake? Sulla base di quali criteri un gioco è più o meno intitolato a essere soggetta a un remake? Quale tipologia di videogioco ha bisogno di un trattamento simile?
Negli ultimi giorni abbiamo visto due annunci simili: il remake di Silent Hill 2 e del primo The Witcher. Quest’anno è già uscito The Last of Us: Parte 1 ed è in procinto di uscito il remake di Dead Space. Non è solo una percezione: ultimamente si è parlato molto di remake perché ci sono stati diversi annunci di remake.
Mi chiedo però come di volta in volta li percepiamo e come dovrebbero essere percepiti.
In alcuni casi sembrano evidenti forzature commerciali e in altri casi no: il problema è il remake inteso come operazione commerciale dal facile guadagno che fa leva sulla nostalgia e su un titolo che già a suo tempo fu un successo commerciale; o sono i giochi per cui viene fatto il remake?
In altre parole: i remake vanno bene sempre o non vanno bene mai?
È lecito che un’azienda abbia in catalogo i remake, le rimasterizzazioni, i sequel e le nuove proprietà intellettuali. Perché in questo modo un’azienda raggiunge più persone e massimizza le vendite sfruttando al massimo le sue proprietà intellettuali.
Eppure, i remake vengono sempre recepiti in modo divisivo, fra chi li ritiene superflui perché quella stessa azienda avrebbe potuto lavorare a un progetto nuovo e chi li applaude perché voleva giocare a quel gioco, ma con una veste nuova oppure perché recuperare l’originale non è semplice (servirebbe acquistare la console originale, trovare l’edizione del gioco: insomma, è scomodo e questo è fatto che non sappiamo ancora come affrontare in termini di preservazione e recupero).
Non sottovalutiamo, però, che il remake, inteso come rifacimento tecnologico, può diventare quasi un gioco nuovo, diverso dall’originale.
Nel momento in cui a un Silent Hill 2 o a un The Witcher andiamo a rimaneggiare la grafica, stiamo alterando l’esperienza originale.
Ciò è molto più percepibile con il trattamento che, per esempio, Capcom ha riservato ai Resident Evil: il 2, in particolare, è più moderno non solo esteticamente, ma anche nel modo in cui viene giocato.
Il Resident Evil 2 di oggi è quasi un gioco diverso rispetto al Resident Evil 2 che abbiamo conosciuto all’epoca della prima PlayStation.
Una situazione resa ancora più complessa dal fatto che l’idea stessa di cosa debba essere un remake e come debba essere fatto varia da azienda ad azienda: fra The Last of Us: Parte 1, Resident Evil 2, Demon’s Souls e il prossimo Dead Space ci sono molte differenze in termini di approccio e modifiche all’opera originale.
Final Fantasy 7 Remake letteralmente ha rivisto la struttura narrativa in un’operazione molto vasta, che lo renderà una trilogia.
Perciò, arrivando a un punto di questa riflessione, che ne facciamo dei remake? Sono un’operazione legittima che prevede anche una quota di valorizzazione del patrimonio videoludico delle aziende? Oppure solo alcuni giochi hanno dignità a essere rifatti? E se sì, quali?
Badate: a me sta anche bene considerare tutti i remake di videogiochi un’operazione commerciale – cosa che di fatto sono – e quindi valutarli di conseguenza. La bandiera però non può sventolare in base ai nostri ricordi di cosa quel gioco è stato, per noi o per il settore, e cosa può ancora dire oggi.
Certo, questo è una parte della discussione, ma non può sminuire alla base la nascita o meno di un remake. Semmai, può diventare un livello di discussione e di valutazione in fase di analisi e di critica.
Per cui, ecco, io eviterei ogni volta di fare questa valutazione aprioristica dei remake sbagliati e dei remake giusti e semmai lascerei che siano poi i risultati a parlare e che in fase di critica si valuti cosa un gioco può ancora dire oggi; cosa significa aver rifatto proprio quel gioco e non un altro gioco, magari della stessa serie; il modo in cui è stato rifatto, a livello grafico e contenutistico, e perché.
Già questo eliminerebbe un sacco di rumore.
Massimiliano
Per anni ci si è chiesto quando sarebbe arrivato il “Netflix dei videogiochi”, cioè un abbonamento mensile come quello di Netflix, ma applicato, appunto, ai videogiochi; quindi, un catalogo di dozzine se non centinaia di videogiochi a un prezzo unico mensile.
L’idea sottostante era che una simile sottoscrizione sarebbe stata trasformativa e avrebbe rappresentato un profondo cambio di paradigma rispetto al classico acquisto di un gioco singolo oppure dello scaricamento dei giochi gratuiti, come Fortnite o League of Legends, che prevedono però delle microtransazioni di vario genere.
Quando poi quell’abbonamento è arrivato, cioè Xbox Game Pass, abbiamo iniziato a capire che quel successo non è per niente assicurato.
Prima i fatti
Sono stati giorni molto interessanti per chiunque segua le vicende attorno a Game Pass.
Da tempo ci si pone domande sul servizio: ma è sostenibile? Riuscirà Microsoft ad avere abbastanza contenuti da convincere le persone a restare abbonate? E soprattutto, qual è il tetto massimo di persone che potrebbero abbonarsi a un simile servizio.
Domande a cui non è facile dare una risposta perché sono dettagli che le aziende tengono per sé in modo da controllare la narrazione. Perciò, quando invece accade il contrario è sempre un’occasione molto interessante.
Prima di cominciare con le considerazioni, secondo me è importante partire da fatti; cioè dai numeri che sono emersi nei giorni scorsi dai documenti ufficiali oppure che sono stati riferiti dai dirigenti di Microsoft.
Per esempio, abbiamo saputo che per due anni fiscali consecutivi di fila Microsoft non ha centrato le aspettative di crescita per Game Pass.
Ciò emerge da un documento che evidenzia gli obiettivi a cui sono legate le retribuzioni di alcuni importanti dirigenti di Microsoft, fra cui l’amministratore delegato di Satya Nadella; e la crescita degli abbonati a Game Pass è l’unica metrica videoludica presente, al fianco della crescita dei ricavi dei servizi in cloud o dei dispositivi Surface.
Nell’anno fiscale 2021 Microsoft aveva preventivato una crescita del 47,79%: è stata invece del 37,48%. Nell’anno fiscale 2022, Microsoft aveva preventivato una crescita del 72,88%: è stata invece del 28,07%.
Prima di provare a comprendere cosa ciò può significare e le ragioni di tale crescita inferiore alle aspettative, proseguiamo con altri fatti.