Forse ci siamo persi qualcosa per strada

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Se pensiamo agli albori del videogioco – stabilendolo più o meno nei primi anni 70, quindi ai tempi del Magnavox Odyssey e dei primi cabinati di Atari, come Pong – erano esperienze molto semplici. Certo, c’erano degli evidenti limiti tecnologici: in altre parole, ciò che per noi oggi è semplice, al tempo era quasi avveniristico.

In quel momento, quella semplicità stava permettendo al videogioco di unire tante persone; perché tante persone potevano giocare a Pong immediatamente, talmente era intuitivo il meccanismo del gioco e i controlli per muovere quelle due linee ai lati dello schermo. E lo stesso vale per tantissimi altri classici pubblicati negli anni successivi, da Space Invaders a Pac-Man. Anche se poi magari le persone restavano incastrate nei primissimi livelli.

Facciamo un veloce salto in avanti più o meno al 2005-2006: il videogioco ha fatto passi da gigante (come tecnologia, come mezzo culturale, come industria); si è evoluto e le esperienze si sono fatte via via più stratificate. Talvolta, anche più complicate: tante persone, in pratica, non ci capiscono più niente. Magari hanno smesso di giocare ai videogiochi tanto tempo fa, si ricordano delle sale giochi, ma ora, con le nuove console (parliamo della generazione di PlayStation 2, Xbox, Dreamcast e GameCube) tutto sembra difficile. Tanti tasti sul controller, combinazioni da ricordare, due levette analogiche da gestire.

Finché non è arrivato il mobile – o almeno: la versione moderna dei giochi mobile, quella diciamo post-iPhone.

Il mobile ha di nuovo azzerato tutto: Fruit Ninja, Temple Run, Angry Birds, Candy Crush. Esperienze disprezzate da una quota consistente di persone perché sempliciotte (sto volutamente escludendo l’argomento delle microtransazioni predatorie: è un altro discorso); ma che sono talmente facili da comprendere che tantissime persone, di ogni età, ci giocano.

Ciò dimostra quanto il videogioco cosiddetto “mainstream” si fosse ampiamente allontanato dall’accessibilità molto professata negli anni. Non mancava la voglia di rapportarsi ai videogiochi; mancava, semmai, il tipo di videogioco con cui rapportarsi. (E in quegli stessi anni Wii ce lo ha dimostrato.)

Oggi, infatti, il segmento mobile è la principale piattaforma da gioco. Non solo per ricavi (quella è un’altra storia: sebbene altrettanto, forse persino di più, rilevante).

In Italia 9 milioni di persone giocano su smartphone, molto più di quante giocano su console o PC (6,9 milioni). In Germania sono 34,2 milioni, anche in questo caso molto più che su console (17,8) e PC (14,3).

È normale che il videogioco faccia il suo percorso e che oggi ci troviamo di fronte a esperienze molto più complesse e sfaccettate rispetto a cinquant’anni: è evoluta la tecnologia, è migliorata la conoscenza del game design, è migliorata la consapevolezza di chi gioca, il medium è anche più maturo nell’esplorare temi e vicissitudini in un modo che (ovviamente) ai tempi di Pong era impensabile fare.

Disdegnare in maniera aprioristica esperienze semplici però è folle: sono le fondamenta del videogioco, sono la storia del videogioco e tutt’oggi mettere in mano una cartuccia di Space Invaders (o applicazioni come Candy Crush, appunto) è molto più leggibile rispetto alla maggior parte dei videogiochi in circolazione. Qualcosa, forse, fra i primi anni 70 e oggi ce lo siamo perso. Poi è arrivato il mobile.