I giochi (a)politici

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
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Hanno fatto discutere le parole di Peter Tamte, a capo di Victura, la società che pubblicherà Six Days in Fallujah: ha sottolineato che il gioco – ambientato durante la battaglia di Fallujah del 2004 – non intende essere politico. La volontà della società, invece, è di “generare empatia verso le truppe americane sul campo, il loro lavoro nella distruzione dei ribelli insediati a Fallujah e i civili intrappolati nel mezzo”. L’intervista (disponibile su Polygon) ha riaperto una discussione frequente: è possibile fare videogiochi di guerra che non siano politici? La risposta, a mio avviso, è una: no, non è possibile.

Innanzitutto, perché il semplice fatto di ambientare un videogioco in un contesto storico realmente avvenuto (in questo caso la battaglia di Fallujah) e raccontarlo attraverso un punto di vista (quello delle truppe statunitensi) è già di per sé una comunicazione politica. Le guerre, anche geograficamente limitate come la battaglia avvenuta a Fallujah, sono complesse: perché vanno inquadrate in un contesto geopolitico, perché molte cose non sono trasparenti e perché, si sa, la storia la scrivono i vincitori: limitare il racconto a un solo punto di vista o semplificarlo significa rappresentarlo parzialmente; quindi, sviare episodi scomodi e riformare l’immagine pubblica su quella vicenda. Ciò vale per qualunque videogioco ambientato in uno scenario di guerra: da Call of Duty fino a Battlefield e Medal of Honor; qualunque. Spec Ops: The Line viene ancora oggi ricordato come uno dei principali videogiochi che ha volutamente espresso un messaggio sugli orrori della guerra, prendendo a piene mani da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad.

Lo sviluppatore Rami Ismail ha elencato su Twitter tutte le criticità riguardanti la battaglia di Fallujah: la mancanza di veri dati sulle vittime irachene, di cui molte sono civili; l’uso di armi chimiche da parte degli Stati Uniti; episodi in cui mercenari assoldati dall’esercito degli Stati Uniti hanno compiuto dei massacri (e sono poi stati perdonati dall’ex presidente statunitense Donald Trump) in risposta alla morte di alcuni di loro.

In generale, Tamte ha descritto Six Days in Fallujah – che era stato cancellato nel 2009 a seguito di molte polemiche ed è stato riannunciato solo di recente – come un gioco che vuole far comprendere come lavorano i soldati, che tipo di decisioni prendono e come gli ordini che ricevono influenzano il loro atteggiamento sul campo. Il che sembra tanto un modo di raccontare in un modo coinvolgente l’esercito statunitense: partendo dal presupposto che l’esercito sta avendo difficoltà nell’arruolare nuovi volti (il che lo ha portato ad avere una squadra di esport e ad avere un canale su Twitch) sembra un tentativo di far piacere l’esercito ai più giovani. Per di più, i collegamenti fra Victura e Destineer (proprietaria di Atomic Games, ossia la casa di sviluppo che stava lavorando a Six Days in Fallujah molti anni fa) sono molti e Atomic Games ha lavorato a lungo su simulatori di guerra per le agenzie governative. L’idea stessa di un videogioco basato sulla battaglia di Fallujah venne suggerita da un marine che stava aiutando Atomic Games con la realizzazione dei suoi simulatori.