In God of War Ragnarok i ruoli di padre e figlio si sono invertiti

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A qualche settimana dall’uscita di God of War Ragnarok, dopo che molte testate ne hanno descritto ogni singolo aspetto, ce n’è forse uno rimasto ancora in ombra e che sicuramente merita di essere trattato. Forse più di altri, a dirla tutta.

Parliamo del rapporto tra Kratos e Atreus e di come questo caratterizzi tutta l’opera e si evolva nel corso dell’avventura. “Ma come? Non è una cosa scontata di cui hanno parlato tutti fin dal primo episodio del 2018?”. Si e no. O meglio, non nella maniera corretta, a mio modesto parere.

Nel primo capitolo Kratos, seppure invecchiato, mostrava ancora tutta la sua fierezza, la sua forza inossidabile, la sua indiscussa capacità di vincere ogni scontro, di non temere nessuno, nemmeno gli dei della mitologia norrena. Atreus, al contrario, veniva ritratto nel capitolo del 2018 come poco più di un bambino, ancora troppo pratico delle cose terrene per essere lasciato da solo in una terra ostile.

Per tutto il primo capitolo, Atreus è oggetto delle attenzioni del padre che non lo perde di vista nemmeno un secondo. Tranne in un momento molto particolare del gioco. Kratos viene attratto in un fascio di luce e lì rivive le esperienze del passato. In qualche modo riesce persino a entrare in contatto con la madre di Atreus. Ma quest’ultimo rimane fuori ad aspettare il padre e quando lo vedrà tornare, seppure nell’esperienza di Kratos saranno passati pochi minuti, lo accuserà di averlo lasciato solo per ore. Ore in cui Atreus ha dovuto scontrarsi con diversi nemici senza il supporto e la protezione del padre.

Non è un caso che questo momento venga fortemente sottolineato dalla sceneggiatura del gioco, per far percepire al giocatore lo stesso senso di colpa che inevitabilmente deve aver provato Kratos nel lasciare solo e indifeso quel suo figlio ancora così inesperto per potersela cavare da solo.

Protagonista del primo episodio è dunque un enorme senso di colpa, rappresentato prima dall’incapacità di Kratos di mostrare affetto nei confronti del figlio – lo dimostrano le tante scene in cui Kratos tenta di dimostrargli affetto, ora con una carezza, ora con una mano sulla spalla, e in cui inevitabilmente fallisce – e poi dalla sua incapacità di difenderlo.

Viene meno al suo ruolo fondamentale di genitore rimasto vedovo, il cui unico scopo è crescere l’unico figlio rimasto in vita e proteggerlo dalla malvagità dei tanti nemici accumulati in un tumultuoso passato che ora rinnega e di cui non vuole fare parola col figlio.

Tutto cambia nel secondo capitolo, dove i due ruoli vengono invertiti in maniera netta.

Questo è forse l’aspetto che non tutti hanno saputo cogliere di Ragnarok. O forse questo è un aspetto che diventa chiaro solo a chi, per esperienza personale, ha vissuto certe situazioni anche nella vita reale.

Nel capitolo appena uscito, anche se sulla carta sono passati pochi anni, Kratos è molto più vecchio, stanco, quasi rassegnato. A premere il tasto per farlo scattare lo si sente respirare con affanno. Dietro la sua forza, sempre incredibile e ultraterrena, trapela una stanchezza che alla lunga viene percepita anche dal giocatore attraverso le vibrazioni del pad.

Insieme a lui, al contrario, c’è un Atreus adolescente, pieno di un’energia fresca e vigorosa, che ha voglia di mettersi in gioco e di fare esperienze. Atreus scappa di notte, mente al padre, si lancia in battaglie con la voglia di vedere i nemici cadere come birilli. È un giovane Dio o, per meglio dirla alla maniera della mitologia nordica, un gigante nel fiore degli anni e pertanto ha voglia di dimostrare al padre che non è più un bambino, bensì un uomo fatto e finito, figlio di un Dio e di una gigante.

La notevole differenza tra i due capitoli si intuisce già all’inizio del gioco. La prima missione del trio – Kratos, Atreus e il saggio Mimir -, è quella di andare a cercare e liberare Tyr, il Dio della guerra. Kratos sospetta che questo evento darà il via al Ragnarok e pertanto vorrebbe opporsi, ma non è più lui a decidere. In qualche modo non condivide la decisione di Atreus, ma lo asseconda, gli concede il beneficio del dubbio e lo segue, accompagnandolo in una missione che potrà avere un solo esito, quello temuto da Kratos.

Atreus però, lo dicevamo poc’anzi, è cresciuto e si sente indipendente, capace di affrontare le difficoltà di un mondo ostile senza il supporto del padre. Di più, Atreus si sente di dover proteggere il padre. I ruoli si sono invertiti, non è più Kratos a dover difendere suo figlio, ma è il figlio a dover proteggere un genitore ormai troppo vecchio per scampare a una sorte tracciata dal destino.

In una delle sue fughe notturne, Atreus scopre che il destino del padre è scritto su antiche pergamene e decide di mentirgli, di procedere da solo per tentare di salvare il padre. Di proteggerlo da quella che sembra una morte inevitabile.

Tutte queste sfumature non sono nascoste tra le righe di dialoghi e sceneggiature, ma sono percepibili facilmente dal giocatore, tanto che quando si riprendono i panni di Kratos, la sensazione di impersonare non più il più forte dei due, ma quello che era il più forte e ora lo è un po’ meno, si fa sentire con prepotenza.

Quella sensazione di solidità, di immortalità del Dio della guerra che conoscevamo, è venuta meno e tra le mani ci si ritrova a controllare un Kratos più umano, più debole, vulnerabile.

Questa forse è la grande novità di questo titolo, che nella scrittura è tanto innovativo quanto coraggioso. Coraggioso perché in qualche modo smonta la figura indistruttibile di Kratos, costruita attraverso tanti titoli in cui si raccontava di un Dio spietato, assetato di sangue e di morte. Quello che abbiamo conosciuto in Ragnarok è invece un uomo, potente e inarrestabile, che però comincia a imboccare il lungo viale del declino.

Un uomo che sembra quasi accettare il suo destino e l’idea di far posto a un figlio che invece cresce velocemente, migliora giorno dopo giorno negli scontri con i nemici – glielo fa notare lo stesso Kratos nei frequenti dialoghi – ed è sempre più consapevole del suo ruolo centrale nella vicenda narrata, nella battaglia finale che porterà, secondo la mitologia, alla fine del creato, ovvero il Ragnarok.

Questa è la più grande novità, rivoluzionaria se vogliamo, di questo titolo che da molti è stato etichettato come fotocopia del suo gemello uscito quattro anni prima. Lo è, se si vuole valutare un singolo aspetto del gioco, ma in netta antitesi se si vuole considerare invece il contesto, la netta e fisiologica evoluzione dei personaggi negli anni, così ben caratterizzati da farci sentire parte del trio che affronta l’inferno dei 9 regni a cavallo tra luoghi reali e regni fantastici.

God of War è infine questo: la parabola fantastica di un uomo crudele e spietato, che, dopo aver affrontato e sconfitto gli Dei dell’Olimpo prima e quelli di Asgard poi, si arrende davanti all’unica debolezza che l’uomo non riuscirà mai a superare: l’amore per un figlio.