Nel nome del padre, del figlio e del Dio della guerra

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

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(Questa settimana sarà un pochino diversa: il tema principale è stato scritto dal giornalista Franco Aquini. Lo puoi seguire su Facebook.)


Spesso affrontiamo il videogioco nella sua accezione di prodotto elettronico, puro e semplice. A volte – anche in questa newsletter – viene indagato nella sua forma di bene virtuale, che ha quindi un contesto commerciale e culturale in cui inserirsi e di cui vanno analizzate le sfumature che lo hanno portato a essere ciò che è.

A volte, in casi più rari, possiamo persino scrutare come sarebbe potuto essere e invece alla fine non è stato. Non un bene qualunque, per carità, perché un videogioco può essere anche capace di esplorare finalità di vario genere, persino escatologiche e profondamente emotive, e di offrire spunti forieri di grandi riflessioni, tanto personali quanto sociali.

Lo facciamo, però, guardando a quel pezzo di bit, analizzandone ogni angolo e ogni anfratto; assaporando ogni nota della colonna sonora o persino ogni parola del dialogo fra i personaggi: lo facciamo nello stesso modo in cui si analizza un oggetto.

Quel prodotto elettronico, che sia il frutto di attente scelte di marketing ed estese analisi di mercato o di un impeto di lanciare un messaggio, è metà del racconto: l’altra metà è chi quel videogioco, a vario titolo, lo ha creato. Chi lo ha toccato durante lo sviluppo; chi ha plasmato quell’opera, anche in piccola parte; chi, magari, ha rinunciato a qualcosa per poter concedere qualche ora in più del proprio tempo alla pulizia del codice o all’aggiunta di un’animazione.

E in questo modo, stiamo sminuendo il racconto perché lo stiamo rendendo la semplice somma delle sue parti senza affrontare l’altra faccia della medaglia. Senza parlare delle persone e delle loro storie; di ciò che hanno fatto o non fatto; di ciò che hanno detto o non detto a noi arriva solo la meta finale di quel viaggio durato anni.

Quando parliamo del videogioco senza tentare di esplorare tutto il resto, rischiamo di sfociare in una deumanizzazione del videogioco stesso. Quando in realtà si tratta di uno strumento che veicola uno o più messaggi e che è stato creato e formato da un gruppo di persone per raggiungere un altro gruppo di persone, più ampio, più eterogeneo e più sfaccettato. Il videogioco è l’equivalente di una bottiglia di vetro con dentro un biglietto di carta lanciata in mare e che raggiunge le persone dall’altra parte del mondo.

Le persone non si appassionano, però, al “pezzo di ferro”, passatemi l’espressione. Non si interessano dei codici: intrecciano la propria vita con quella di altre figure, a volte distanti e a volte vicine. In quelle figure distanti, c’è a sua volta un altro mondo, fatto di gesti, di parole, di rinunce, di sacrifici. Di relazioni, di movimenti, di sapori.

Non è un caso che gli aneddoti che vengono tramandati di generazione in generazione sono quelli personali. La nascita del primo easter egg, con Warren Robinett di Atari che voleva che venisse riconosciuto il suo lavoro, anche al costo di manovrare il codice a suo piacimento; quando il direttore creativo di Ubisoft Milan, Davide Soliani, si è commosso nel momento in cui Shigeru Miyamoto sul palco ha parlato di Mario + Rabbids; della tragica vicenda vissuta dalla famiglia Greene e che ha portato allo sviluppo di That Dragon, Cancer.

Non abbiamo bisogno di più videogiochi. Abbiamo bisogno di più storie.

Massimiliano


di Franco Aquini

A qualche settimana dall’uscita di God of War Ragnarok, dopo che molte testate ne hanno descritto ogni singolo aspetto, ce n’è forse uno rimasto ancora in ombra e che sicuramente merita di essere trattato. Forse più di altri, a dirla tutta.

Parliamo del rapporto tra Kratos e Atreus e di come questo caratterizzi tutta l’opera e si evolva nel corso dell’avventura. “Ma come? Non è una cosa scontata di cui hanno parlato tutti fin dal primo episodio del 2018?”. Si e no. O meglio, non nella maniera corretta, a mio modesto parere.

Nel primo capitolo Kratos, seppure invecchiato, mostrava ancora tutta la sua fierezza, la sua forza inossidabile, la sua indiscussa capacità di vincere ogni scontro, di non temere nessuno, nemmeno gli dei della mitologia norrena. Atreus, al contrario, veniva ritratto nel capitolo del 2018 come poco più di un bambino, ancora troppo pratico delle cose terrene per essere lasciato da solo in una terra ostile.

Per tutto il primo capitolo, Atreus è oggetto delle attenzioni del padre che non lo perde di vista nemmeno un secondo. Tranne in un momento molto particolare del gioco. Kratos viene attratto in un fascio di luce e lì rivive le esperienze del passato. In qualche modo riesce persino a entrare in contatto con la madre di Atreus. Ma quest’ultimo rimane fuori ad aspettare il padre e quando lo vedrà tornare, seppure nell’esperienza di Kratos saranno passati pochi minuti, lo accuserà di averlo lasciato solo per ore. Ore in cui Atreus ha dovuto scontrarsi con diversi nemici senza il supporto e la protezione del padre.

Non è un caso che questo momento venga fortemente sottolineato dalla sceneggiatura del gioco, per far percepire al giocatore lo stesso senso di colpa che inevitabilmente deve aver provato Kratos nel lasciare solo e indifeso quel suo figlio ancora così inesperto per potersela cavare da solo.

Protagonista del primo episodio è dunque un enorme senso di colpa, rappresentato prima dall’incapacità di Kratos di mostrare affetto nei confronti del figlio – lo dimostrano le tante scene in cui Kratos tenta di dimostrargli affetto, ora con una carezza, ora con una mano sulla spalla, e in cui inevitabilmente fallisce – e poi dalla sua incapacità di difenderlo.

Viene meno al suo ruolo fondamentale di genitore rimasto vedovo, il cui unico scopo è crescere l’unico figlio rimasto in vita e proteggerlo dalla malvagità dei tanti nemici accumulati in un tumultuoso passato che ora rinnega e di cui non vuole fare parola col figlio.

Tutto cambia nel secondo capitolo, dove i due ruoli vengono invertiti in maniera netta.