Anni fa scrissi un editoriale nel quale definivo la Game Developers Conference (GDC) la botta di onestà di cui l’industria videoludica ha bisogno. Durante la GDC, evento pensato per gli addetti ai lavori, gli sviluppatori parlano in modo chiaro e trasparente di cosa ha funzionato oppure no in un loro gioco; di cosa hanno sbagliato e di quello che avrebbero fatto diversamente.
Ho ripensato a quell’editoriale in questi giorni leggendo i commenti al trailer di God of War Ragnarok. Il gioco sembra riusare molti dei contenuti (dalle animazioni ai personaggi) già visti nel precedente capitolo del 2018. In questi casi viene usata l’espressione “more of the same” (traducibile grossolanamente come “un altro po’ della stessa cosa”) a indicare un gioco che è una versione 1.5 del precedente: lo amplia, ma senza distaccarsi granché.
Il punto è che in mancanza di una piena e più frequente onestà e trasparenza, gli utenti faticano a comprendere quanto sia complesso creare un videogioco. God of War ha chiesto cinque anni di sviluppo; ci hanno lavorato centinaia di persone ed è costato decine di milioni di dollari.
Il game director di God of War, Cory Barlog, e il game director di God of War Ragnarok, Eric Williams, hanno spiegato che il prossimo gioco chiuderà la saga norrena perché spendere 15 anni per una trilogia (cinque anni per ciascun capitolo) è impensabile, secondo loro. “Sarebbe stato semplicemente troppo lungo”, ha detto Barlog.
In particolare, ho trovato fondamentali le parole che proferì Barlog nel 2019, qualche mese dopo il debutto di God of War su PS4. Le ho trovate centrate perché mostrano in maniera chiara e netta quanto possa essere stancante creare un videogioco e quanto sia difficile farne uno, in particolare, così grande e che coinvolge così tante persone.
“Ogni gioco a cui ho mai lavorato e ogni gioco di cui mai parlerò è brutto come l’inferno finché non è più brutto” ha detto, per esempio. Riferendosi al fatto che un videogioco arriva a completamento soltanto pochi mesi prima del lancio: prima è un conglomerato di pezzi montati insieme grossolanamente; non ha la finitura di un prodotto completo (e tanti giochi non ce l’hanno nemmeno una volta usciti, vedasi Cyberpunk 2077 o Assassin’s Creed Unity).
Un’altra frase che, per me, devi segnarti: “Per il 50 per cento del tempo, il 50 per cento delle persone non sta supportando la tua idea”. Barlog in questo caso si riferisce alla difficoltà di allineare tutte le persone sullo stesso obiettivo: alcuni non saranno convinti di ciò che il team sta facendo, che sia una nuova missione o un approccio diverso dai precedenti.
Nel caso di God of War, per esempio, è stato l’inserimento del figlio del protagonista, che aiuta nelle battaglie e nella risoluzione degli enigmi, che ha previsto dinamiche a cui Sony Santa Monica non aveva mai lavorato e per cui sono servite figure esperte in questa materia. Figure che Sony ha faticato a trovare fino a sviluppo inoltrato: per qualche tempo, la presenza del figlio del protagonista avrebbe potuto essere rimossa da un momento all’altro.
Infine, Barlog ha riassunto cosa vuol dire portare avanti un progetto videoludico: “È stancante. È stressante. Ci sono un sacco di dubbi e un sacco di preoccupazione. E questo per ogni progetto”.
Ecco perché i “more of the same”: dopo che centinaia di persone hanno speso cinque anni a realizzare tutto, è impensabile che il capitolo successivo possa rifare tutto da capo – dalle animazioni ai modelli dei personaggi e le meccaniche di gioco.