“Gomorra non è mai stato inteso come un gioco di azione”. L’intervista a chi lo ha creato

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Quando è stato annunciato il videogioco di Gomorra – basato sull’omonimo romanzo di Roberto Saviano, da cui sono già state tratti film, opere teatrali e quella che forse è la sua versione più popolare: la serie TV – il mio interesse era abbastanza alto.

Innanzitutto, perché è una storia che in Italia tante persone conoscono, anche solo di nome. E poi perché Gomorra era stato tradotto in videogioco da uno studio italiano, cioè 34BigThings.

La prima cosa che ho fatto, quindi, è stata quella di scrivere la notizia per DDAY intervistando il game designer Vittorio Mattia Bernatti per chiedere i perché e i percome di com’era stato ideato e di cosa aveva previsto.

Quell’intervista venne fatta prima che il gioco venisse lanciato sul mercato; anzi, persino prima che sapessimo quanto sarebbe costato (spoiler: 2,99 euro).

Pochi giorni dopo quell’intervista, ho giocato a Gomorra e l’ho finito. E mi sono emerse molte domande. Per questo, sono voluto tornare da Bernatti per per una seconda intervista e per trovare delle risposte.

Cos’è Gomorra

Intanto, un passo indietro. Gomorra è un videogioco narrativo (disponibile per Android, iOS e PC) che include anche delle componenti gestionali. In pratica, la storia si sviluppa nell’arco di capitoli, a loro volta suddivisi in missioni, che vengono raccontate attraverso dei fumetti interattivi.

Di fatto, quindi, non c’è un personaggio da muovere; non c’è un ambiente 3D (ma nemmeno 2D) in cui inserirsi e fare cose.

Quando ho installato il gioco sul mio smartphone, ho realizzato che mi trovavo di fronte a una produzione a basso budget: il prezzo (ripeto: 2,99 euro), la totale mancanza di un ambiente virtuale e la modesta longevità del gioco (circa un’ora e mezza, due ore) mi sembravano segnali in quella direzione.

Quando chiedo spiegazioni a Bernatti, prima mi risponde che la decisione sul prezzo è avvenuta su tavoli dove lui non partecipa. Insomma: non mi sa dire i perché e i percome della scelta. “Non è proprio una domanda per me”, mi dice in videochiamata.

Il tema però mi interessa. Perché vista la portata, in particolare, della serie TV e come il “marchio” Gomorra sia popolare in Italia mi suona perlomeno curioso che la scelta sia stata una produzione di così basso profilo.

Così, ritorno sulla questione: perché non un gioco 3D o comunque un gioco di azione, che è la prima idea che balena nella testa di una persona a cui dici “ehi, esiste un videogioco di Gomorra”?

“Secondo me aspettarsi un qualcosa di action, avere il 3D in un gioco…ci sono pochi giochi narrativi in 3D belli da vedere”, risponde Bernatti. “È difficile fare un gioco 3D basato su persone…vanno disegnate, animate e hanno bisogno di dettagli che potenziano l’esperienza ma fino a un certo punto, perché poi alla gente interessa la storia”.

Tutto sommato, però, ci sono altri generi che sposano di più un’esperienza basata prevalentemente sulla storia. E lui concorda: “Sicuramente avere un walking simulator come Firewatch avrebbe potuto essere interessante.”

La questione però è un’altra. “Aspettarsi qualcosa di più action è contro ciò che volevamo dire di Gomorra e come io credo che vada affrontato il tema della malavita”, va avanti Bernatti.

Ok, questo mi sembra già un punto importante.

Lui aggiunge: “Il gioco action finisce per farti sentire figo, alimentare fantasie di potenza. È difficile fare un gioco in cui tu devi premere il grilletto come azione brutta: in genere premi il grilletto e ti vuoi gasare. C’è anche una questione di aspettative basilari di un gioco che non possono essere deluse”.

Insomma, l’idea di un gioco d’azione – 3D o meno che fosse – sembra non essere mai stata nei piani. Per sicurezza, glielo chiedo direttamente.

“Per quanto mi riguarda il gioco non è mai stato inteso come 3D o action o qualunque cosa”, conferma Bernatti. “Ho iniziato a studiare le visual novel prima di lavorare su questo progetto e quando ci è stata offerta l’opportunità di lavorare su un progetto con questa IP, io ho fatto una proposta di quel tipo perché mi sembrava azzeccata. Tutto qua.”

Fumetto interattivo, insomma. E devo ammettere – dopo averlo giocato – che funziona: il proseguimento della storia segue gli schemi che ci si aspetta da una storia criminale. Solo arrivato a metà, infatti, realizzi che quanto hai vissuto fino nei primi capitoli è servito a farti arrivare a quel momento lì: il momento in cui tutto va a quel paese. Perché si incrociano molte scelte fatte prima in un modo – ripeto: abbastanza tipico del genere criminale; o perlomeno del “filone gomorriano” – in cui realizzi che la storia non può finire bene. Non per tutti, almeno.

Le conseguenze delle scelte

Proprio sulle scelte da fare, però, ho alcuni dubbi.

Il videogioco ti permette di scegliere fra due o tre opzioni, a seconda della situazione; e tutte queste scelte confluiscono poi in otto finali differenti. Ci sono scelte minori e altre maggiori, ovviamente: ma capire quali effettivamente fanno deviare la storia da una parte o dall’altra non è semplice. Così anche ricominciando non ho un’idea chiara – come può accadere in altri videogiochi con una storia a bivi – di cosa dovrei cambiare. Chiedo spiegazioni.

“Ci sono due tipi di meccaniche che ti portano verso il finale, che agiscono parallelamente, ma in maniera diversa”, spiega Bernatti. “Quindi una sono effettivamente le scelte che prendi durante la fase narrativa: scelgo di andare a sinistra o scelgo di andare a destra, per intenderci. Poi per struttura questi percorsi tendono a ricongiungersi prima o poi. Si influenzano l’un l’altro perché alcune scelte nelle fasi avanzate nel gioco effettivamente appaiono o non appaiono a seconda di ‘ho seguito quel personaggio oppure no’. Anche nei capitoli finali, c’è una scelta predominante che è quella che ti porta verso due strade diverse”.

Gomorra ha quattro profili con cui classifica le missioni che compi. In base alle scelte, per dire, puoi essere “sanguinaria” o “businesswoman” o “implacabile”. Bernatti lo definisce “un sistema di karma”, di cui però l’utente davanti allo schermo non ha visibilità; cioè non sa a che livello è quando approccia il finale del gioco. Per parlare chiaro: non è come in un Mass Effect.

Anche qui: è stata una precisa scelta.

“Quell’informazione non te la diciamo esplicitamente per non creare nel giocatore una sensazione di ‘Ok, allora le scelte che ho preso sono di questo tipo, quindi continuo su questa strada’”, dice Bernatti.

“Quindi idealmente quello che io mi sono immaginato è che la prima volta tu vai a sentimento e vedi come sei arrivato alla fine. Questo per non farlo sentire come un giudizio, ma come l’insieme delle tue scelte. Dopodiché per vedere i finali diversi invece conviene scegliersi un profilo e quindi dire ‘come sarebbe andata la storia se Nina (la protagonista, ndr) fosse stata una persona spregiudicata e magari anche malvagia?’ Oppure: ‘Come sarebbe finita la storia se fosse stata una persona a cui non frega di niente tranne che dei soldi?’”

Gli rispondo che è esattamente come sto giocando la seconda partita: immagino che la protagonista sia solo spietata. Lui annuisce e poi dice: “Sì, quello è il modo che abbiamo inteso per farti vedere i finali diversi. Quindi poi le scelte della storia aggiunte a questi profili ti danno i finali”.

C’è però una parte del videogioco Gomorra che mi ha colpito meno: quella gestionale.

Fra alcune missioni, c’è una breve sessione in cui devi gestire cinque “guaglioni” e smistarli nelle varie attività: scortare un politico o spacciare droga o addestrarli per migliorare le loro abilità, per esempio.

Quando ho intervistato Bernatti la prima volta, mi aveva detto che questa parte aveva comunque un interesse narrativo: perché in base alla quantità di risorse che hai – che viene influenzata dalle missioni che intraprendi, da quali completi e quali tralasci – alcune scelte sono meno facili (perché per corrompere una persona ti serve una certa quantità di denaro, tanto per dire). Come regola base, inoltre, se azzeri una risorsa per due settimane di fila, il gioco finisce. Perciò, l’idea era che il modo in cui gestisci i “guaglioni” fosse parte del tuo percorso.

All’atto pratico, la parte gestionale mi è parsa decisamente molle; anzi, a volte pure un po’ fastidiosa perché interrompeva la storia. Assegnare un omicidio non mi fa sentire male, non mi fa sentire bene. Non mi fa sentire e basta.

E nella seconda metà del gioco – quando la narrazione accelera e coinvolge – questa componente sparisce: la gestione dei “guaglioni” viene rimossa.

Mi sembra che questo dimostri che tutto sommato non servisse. Secondo Bernatti mi sbaglio.

“Più che per diluire, [la fase gestionale serve] per creare quello che si può dire in gergo chiamiamo il pacing, quindi comunque l’andamento delle fasi di gioco”, risponde. “Questo ha anche aiutato, come hai detto tu, a creare una parte finale del gioco che ha un’intensità diversa. Oltretutto la parte gestionale del gioco ti aiuta a scandire letteralmente le settimane”.

Un’altra cosa. Nella fase gestionale la scelta di un “guaglione” o di un altro influenza le probabilità di riuscita: scarsa, media, elevata. Tante volte sono andato sul sicuro: la probabilità era elevata. Eppure: missione fallita. Frustrazione a mille. Praticamente è come giocare a dadi.

“È assolutamente un tiro di dad i condizionato da più fattori, tra cui specialmente le caratteristiche dei tuoi personaggi”, conferma Bernatti. “Avevamo i numeri crudi a un certo punto, poi siamo passati alle percentuali, ma poi come schermata era molto pesante con tanti numeri; quindi abbiamo riassunto l’informazione che ti diamo con appunto una parola: elevata dovrebbe essere sopra l’80%”.

Per quanto comprenda che l’idea di questo sistema sia anche quella di trasmettere una minima tensione verso le missioni – possono andare storte anche quando tutto sembrava andare bene – continuo a non essere convinto: magari il sistema poteva essere comunicato meglio?

“Abbiamo lavorato abbastanza su quella che è la fase introduttiva del tutorial. Se non ricordo male, ti spiega tutto abbastanza precisamente; ma è una fase che generalmente non dico viene ignorata, però è facile poi dimenticarsi di quello che è stato spiegato prima”, risponde Bernatti.

Poi va avanti: “Effettivamente forse possono esserci dei modi per migliorare ancora la chiarezza da quel punto di vista. Comunque non per giustificarmi però lavorare con le percentuali di successo o fallimento è difficile proprio perché io-giocatore interpreto le percentuali in maniera diversa da io-game designer.”

Mi faccio bastare questa risposta.

Le ispirazioni di Gomorra

Una cosa che mi dice dopo, però, dà pienamente senso alla sua scelta: fra le ispirazioni c’è Fire Emblem Three Houses. “Tutta la parte dentro la scuola, dove ci sono gli orari e devi gestire gli studenti e fargli fare le lezioni, per la parte gestionale”, mi dice.

Ma lo hanno ispirato anche altri giochi: per esempio Thronebreaker, che fa parte del mondo videoludico basato su The Witcher. “È di base un gioco di carte, ma al di là del gameplay, a volte ti fa prendere scelte che non influenzano le risorse: è solo etica. Però fanno molto bene il contorno”.

“C’è anche Always Remember Me, che è una visual novel più pura. È una storia romantica e anche lì hai una meccanica di gestione della giornata, che intervalla.”

Ci salutiamo con un avvertimento: potrebbe non essere l’ultima volta che ci sentiamo. Magari avrò altre domande finita la seconda partita di Gomorra.