La scorsa settimana è stata pubblicata un’intervista fatta a Neil Druckmann, game director di The Last of Us: Parte 2 e una delle principali figure creative degli studi di PlayStation. L’intervista è stata realizzata direttamente da Sony. Il suo scopo – come parte di un’iniziativa più ampia per raccontare la visione creativa del gruppo Sony – era di mostrare come Naughty Dog e Druckmann stanno costruendo nuove forme di intrattenimento creatività.
Io non ve ne ho parlato perché ho ritenuto che ci fosse ben poca roba di cui parlare. Eppure, il modo in cui la faccenda si è sviluppata ci permette di fare un discorso diverso.
In quell’intervista, in particolare, Druckmann anticipava che il prossimo videogioco di Naughty Dog mira a “ridefinire la percezione del videogioco da parte del grande pubblico”. Inoltre, Druckmann usava parole positive per parlare dell’Intelligenza Artificiale e di come poteva contribuire a “espandere le possibilità creative”. In un momento in cui simili affermazioni hanno bisogno di più argomentazioni, visto che spesso strumenti basati sull’IA vengono usati per non pagare artisti e altre figure o per pagarle molto meno.
Vista la figura di Druckmann, quelle parole sono state riprese ovunque, tanto in Italia quanto all’estero. Spoiler: non ha mai pronunciato quelle parole.
Lo stesso Druckmann ha scritto in un post su X, ex Twitter, come stavano le cose, chiarendo che nella sintesi pubblicata da Sony le sue parole erano state ampiamente rimaneggiate. Anzi, alcune erano state inventate. E a prova di ciò, Druckmann ha pubblicato il testo originale della sua risposta.
Pochi giorni fa, allora, Sony ha rimosso l’intervista – di cui però è ancora possibile recuperare l’intero testo grazie a strumenti come Wayback Machine – dopo aver riscontrato “errori significativi e imprecisioni che non rappresentano i suoi valori e la sua prospettiva”.
In altre parole, Sony aveva usato l’intervista a Druckmann per favorire la sua narrazione. E la cosa, come ci si può aspettare, non è andata a genio a Druckmann.
Altra cosa che ci si poteva aspettare: soprattutto all’estero, molti giornalisti hanno fatto notare come il modo in cui le aziende si sono prese questo tipo di contenuto – per esempio, limitando la disponibilità alle interviste esterne a sviluppatori come Druckmann – possa anche colpirle come un boomerang. Come a dire: lasciate fare ai professionisti, che è meglio.
Eppure, non sarei così lesto a puntare il dito. Intanto, perché non accade spesso che l’informazione riesca a vedere dall’esterno ciò che accade quando le parole di un intervistato vengono travisate. Ciò che accade quando è qualcun altro a farlo e quindi si vede quanto la pratica sia un meschino mezzuccio.
Sicuramente il caso di Sony è estremo: alcune frasi sono inventate e non sono stati pubblicati semplici estratti, ma una costruzione di domande e risposta che è ancora più fuorviante. Ma è evidente che siamo a un passo da tanti comportamenti che l’informazione e il giornalismo videoludico (e non solo) perpetuano ogni giorno: decontestualizzare certe frasi; virgolettare, per sintesi, parole mai dette (questa un’abitudine molto italiana); estremizzare dei concetti per poter attirare di più il pubblico o per riuscire a incastrare uno spezzone o una dichiarazione all’interno di un contesto più favorevole o che è coerente con un luogo comune che piace ai lettori.
Perciò, di fatto è anche sbagliato insinuare che se l’intervista fosse stata fare a un sito terzo, allora sarebbe andato tutto liscio. Perché non è così che va.
Anzi, arrivo a dire una cosa che a molti sembrerà oltraggiosa. Mentre Sony ha rimosso l’intervista e chiesto scusa, molto spesso i siti di informazione non si comportano allo stesso modo. Al massimo, rimuovono un contenuto all’improvviso; ma le scuse non si vedono. Mentre le rettifiche vengono fatte passare come una cosa normale; come a dire “eh, si sbaglia”. E magari vengono anche un po’ nascoste.
Quindi, in tutta questa storia ci vedo uno specchio, che riflette tante dinamiche che sono molto più presenti sui siti di informazione, in Italia e all’estero, rispetto ai portali delle aziende.
Anziché usare questa brutta vicenda di comunicazione come una leva per spingere una retorica, anche un po’ autoreferenziale, del “si stava meglio quando le aziende facevano le aziende e l’informazione era lasciata ai siti”, proverei a usarla come un’epifania per fare meglio. Così sì da essere un buon esempio e riuscire a dimostrare che il giornalismo ha motivo di esistere anche fra i videogiochi.
Massimiliano
Cosa ne sarà dei vostri videogiochi in digitale quando non ci sarete più? La risposta alla domanda è semplice: non andranno da nessuna parte. Resteranno lì. Perché non potranno essere trasferiti a un’altra persona, nemmeno con un testamento.
La questione della gestione dei videogiochi in digitale e di quanto, in realtà, non se ne possa usufruire a proprio piacimento è riemersa a seguito di un post pubblicato sul forum ResetEra. In cui un utente, appunto, ha contattato il supporto di Steam, la principale piattaforma di distribuzione di videogiochi su PC, per sapere se tramite testamento era possibile trasferire la proprietà di un account. La risposta: no.