I videogiochi sono più tecnologia o più cultura?

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Commentando un post su X (ex Twitter) del giornalista del Washington Post Gene Park, che a sua volta commentava il recente annuncio del New York Times di un focus maggiore sulla copertura dei videogiochi e dell’industria attorno a essi, Mike Drucker – comico e scrittore di programmi TV, ma anche autore di un libro su Silent Hill 2 – ha scritto: “Credo genuinamente che infilare le notizie sui videogiochi nella sezione di tecnologia dei giornali piuttosto che in quelle di cultura abbia danneggiato il modo in cui i media non-videoludici li percepiscono. È accaduto anni fa e sta pian piano svanendo, ma persiste la percezione errata che i videogiochi appartengano alla stessa categoria dei tostapane”.

Si tratta di un interessante spunto: perché non ci è mai passato per la mente di parlare dei film come di un prodotto tecnologico, per esempio. Nonostante la tecnologia sia una parte centrale di qualunque produzione cinematografica: che telecamere usare, come montare i video, le modalità di utilizzo degli effetti speciali e, più di recente, l’integrazione di soluzioni per ringiovanire attori e attrici di una certa età.

Il fatto che i videogiochi vengano considerati un pezzo di tecnologia prima ancora che un pezzo culturale effettivamente influisce molto sul modo in cui vengono percepiti. Non soltanto dai media generalisti, a cui faceva riferimento Drucker, ma anche da noi, dai siti specializzati e da tutti, in generale.

Ho incrociato il commento di Drucker proprio mentre, fra i documenti di Microsoft che sono trapelati nei giorni scorsi, riflettevo su un’email in cui l’amministratore delegato di Microsoft, Phil Spencer, commentava l’annuncio nel 2020 di PlayStation 5 e le sue specifiche tecniche, confrontandole con quelle delle nuove Xbox. Ciò mi ha ricordato come, in assenza di altre informazioni da commentare, ci siamo soffermati tutti quanti per mesi, nel 2020, sui teraflops delle schede grafiche; sulla velocità di lettura e di scrittura dei dischi a stato solido di PS5 e delle nuove Xbox; sul sistema di raffreddamento; sull’espansione dello spazio di archiviazione. Su tanti dettagli tecnici che a pensarci oggi mi viene da ridere: perché è chiaro che quella roba lì, quel tipo di contenuti, non hanno mai avuto un’effettiva rilevanza nell’economia del discorso videoludico. Ce l’hanno avuta, e ce l’hanno ancora, per gli sviluppatori e per chiunque usi l’hardware di queste console per eseguire i suoi videogiochi; molto meno per valutare i videogiochi in sé e per sé.

È come se nel momento in cui iniziamo a discutere di un nuovo romanzo, anche di uno di cui ancora si sa pochissimo, ci interessasse confrontarci sulla provenienza della carta su cui è scritto o su quanto è evoluto il macchinario che lo ha stampato.

Anche questo atteggiamento, questa fame di dettagli tecnici (i frame rate, la risoluzione, la tecnica di ray tracing: anche quando tutto funziona bene e non c’è motivo di soppesare i numeri), fa parte della stessa mentalità che ha spinto tanti giornali generalisti a parlare di videogiochi come tecnologia; e non a fianco di libri, film, fumetti e album musicali.

Un errore di gioventù, quando la consapevolezza stessa di chi copriva i videogiochi era diversa, più ingenua e meno capace di prevedere dove saremmo arrivati e quali sfide si sarebbero presentate, proprio in virtù di quell’atteggiamento. (C’entra anche che i primi videogiochi sono nati come costola del mondo dell’informatica e anzi abbiano percorso per tanti anni binari paralleli, in alcuni casi sovrapponibili.)

Raccontare il videogioco come pezzo culturale è difficile ed è complesso, perché significa inserirlo in un contesto che è persino più grande e più stratificato di quello tecnologico; ma è necessario affinché venga valorizzato appieno e al meglio delle sue potenzialità comunicative ed emotive e artistiche. Anche perché per anni non lo si è fatto.