Il brutto errore de La Stampa

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

In passato ho già parlato di cosa significhi dare un titolo in un certo modo: il fatto stesso che un titolo parli di “polemiche” o di “scandalo” fornisce una percezione sfalsata anche a chi non legge e a prescindere che, poi, il fatto non fosse né una polemica né uno scandalo.

Non è niente di diverso da ciò che succedeva – e che succede ancora – con le locandine dei giornali e dei settimanali locali che si possono trovare fuori dalle edicole: tali locandine non sono altro che una versione analogica di ciò che oggi sono i post sui social network, cioè delle esche per spingere a comprare il giornale o, nel digitale, ad andare sul sito e a leggere un articolo.

Nei giorni scorsi, il quotidiano La Stampa ha intervistato Claudia Molinari di We Are Muesli, studio di design che ha lavorato e collaborato con vari progetti, fra cui videogiochi e giochi da tavolo. L’intervista, che online era dietro un paywall, quindi bisognava essere abbonati per leggere interamente, è stata pubblicizzata su Instagram con il seguente titolo: “Il videogioco è maschio, bianco ed etero, forse molto più di altre industry. Per evitare messaggi manipolatori bisogna rendere i modelli più inclusivi”. Tale titolo era presentato come una citazione delle risposte di Molinari; citazione che però era fuorviata.

Fuorviata in che modo?

Per risponderti devo prima spiegarti un modo subdolo di comporre il titolo delle interviste. Una persona può fare di proposito una domanda provocatoria in modo che poi faccia parte del titolo, a prescindere dalla risposta dell’intervistato. In realtà, quella prima parte sono parole di chi ha svolto l’intervista; non di chi ha risposto. Ciò viene usato per rendere i titoli più interessanti: spesso l’interesse di un’intervista, un contenuto lungo, non è facile da trasmettere in poche parole; perciò le risposte vengono travisate nei titoli per esigenze di brevità.

Questa tecnica è stata usata per il post su Instagram: metà di quella risposta sono parole pronunciate da chi ha intervistato e non da chi ha risposto, in questo caso Molinari.

Ciò che ne è seguito sono state minacce e insulti sgradevoli nei commenti al post, a cui non ho intenzione di dare visibilità; ma che rappresentano il motivo per cui la categoria di chi sceglie di fare dell’informazione una professione deve fare grandissima attenzione a come scrive e a cosa scrive.

Nei giorni successivi alla condivisione di quel post, La Stampa ha aggiunto questa nota: “Siamo stati costretti a rimuovere una serie di commenti gravemente insultanti nei confronti dell’intervistata e dell’autrice di questo post. Nel condannare questi comportamenti inaccettabili, ricordiamo agli utenti il rispetto delle regole di comunicazione previste dalla policy del Gruppo Gedi e della comune buona educazione.”

Il post originale però è ancora lì e il titolo dell’intervista non è stato modificato.