Una riflessione sul videogioco indipendente mi ronza nella testa da tempo. Non mi riferisco a cosa sia o non sia un videogioco indipendente; che è una discussione per certi versi pure sterile, mi sa.
Questa riflessione che ho in mente da un po’ si è concretizzata in un commento fatto dal game director di Unhinged Studios, Don Westendorp, ad Ars Technica, in un articolo che ha ricostruito perché ci sono 861 videogiochi di carte con meccaniche roguelike su Steam.
Westendorp ha detto: “Il mercato videoludico è iper-competitivo e molti [studi] indipendenti, compresi noi stessi, fanno molta ricerca sui generi prima di buttarsi a capofitto nella realizzazione di un videogioco”.
Con questa frase Westendorp ha palesato qualcosa che può sembrare banale, ma che va sottolineata, secondo me: cioè che essere indipendente a volte può significare essere anche molto commerciali. Può significare sviluppare un videogioco non sull’impeto di uno spirito creativo capace di sovvertire ogni aspettativa su cosa sia il videogioco; bensì partendo dal ben più materiale spirito commerciale: si intravede una domanda di mercato o una tendenza commerciale e allora si crea un prodotto. Esattamente come fa qualunque azienda che non definiamo indipendente.
Credo che sia utile ribadire questo aspetto perché – temo – che l’etichetta di indipendente sia spesso sovrapposta a un lavoro artigianale, curato, bello, anche molto creativo e che contrasta le bulimiche e cattive aziende; che non vogliono bene al videogioco, ma vogliono solo trarne profitto.
Eppure, gli studi indipendenti devono pur vendere un videogioco. Se non guadagnano abbastanza – per quanto un titolo sia avvincente o coinvolgente o innovativo – non riescono a farne un altro. Sono davvero rari i casi in cui una sola persona o un piccolo studio prende e sviluppa un videogioco perché vuole usarlo come mezzo espressivo non a fini commerciali. Succede, sì, ma sono eccezioni che confermano la regola.
Al recente Triple-i Initiative si sono visti diversi videogiochi che a un’occhiata superficiale si assomigliano: con variazioni sul tema del genere gestionale o strategico o delle meccaniche roguelike. E questo è successo non perché condividano la stessa idea di videogioco; ma perché quelle sono meccaniche che in questo momento storico e commerciale piacciono al pubblico, sono etichette molto cercate su piattaforme come Steam. Il videogioco, in questo caso, è stato fatto per rispondere a una domanda: le sue caratteristiche ne sono una conseguenza.
A volte essere indipendenti significa poter esplorare temi complessi a modo proprio, senza restrizioni. Poter affrontare aspetti poco seguiti dai videogiochi “mainstream”, poterlo fare senza che un editore o un fondo di investimento metta becco e sottolinei cosa “il mercato” vuole.
Altre volte, invece, significa seguire le stesse tendenze commerciali delle grandi aziende, puntare a un genere che sta avendo successo e provarci. L’unica differenza rispetto alle grandi aziende è che nessuno te lo ha imposto.
Massimiliano
La serie TV derivata da Fallout, che ha debuttato lo scorso 10 aprile su Prime Video, sta piacendo e le recensioni sono state molto positive. Anzi, Amazon ha comunicato che è stato il miglior debutto per una stagione su Prime Video da Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere, esaminando i primi quattro giorni di disponibilità.
In particolare, è stata apprezzata la stessa comicità che è presente nei videogiochi e anche l’ambientazione in sé, oltre alla prestazione attoriale di Ella Purnell e Walton Goggins, due dei protagonisti.
Soprattutto, il debutto della serie ha già avuto il suo effetto: le vendite dei videogiochi sono cresciute.