Senti, lo so: la pubblicità non piace. Non piace a nessuno, a dire il vero: quando c’è la pausa su Twitch dà fastidio; quando passa in TV dà fastidio; quando la troviamo nel gioco mobile dà fastidio. Però la si sopporta perché è uno scambio fra due soggetti: chi fa pubblicità espone il suo prodotto; chi la espone ottiene soldi in cambio per finanziare la sua attività. Per avere contenuti gratuiti, la pubblicità è stata accettata come necessaria e più o meno, tutto sommato, ci siamo abituati.
L’informazione non fa eccezione: ha bisogno di una fonte da cui attingere il sostentamento economico per poter continuare a esistere.
Per anni, i giornali hanno goduto sia del pagamento corrisposto per l’acquisto del giornale (o della rivista) sia della pubblicità interna. Quando il tutto si è spostato online, entrambe queste fonti di ricavi sono calate: l’informazione su Internet è diventata gratuita e le pubblicità pagate molto meno.
Il risultato è stato un’informazione che ha iniziato a giocare al ribasso: articoli pagati meno, ma che devono attirare più clic per poter massimizzare la monetizzazione di ciascun contenuto; la ricerca di contenuti facili da fare (come le gallerie di foto che puntano sul gossip) per poter attirare le persone.
Le pubblicità però sono diventate sempre di più e così tante persone hanno iniziato ad adottare estensioni per browser per bloccare le pubblicità; anzi, oggigiorno tanti browser le bloccano per impostazione predefinita.
Quando meno persone vedono le pubblicità ci si ritrova in una situazione in cui vengono introdotti stratagemmi che puntano ad aumentare il numero di clic, per bilanciare quelli persi, a volte – anzi: molto di frequente – a scapito della qualità: meno persone vedono le pubblicità e più pubblicità devono essere fornite alle stesse persone.
Ci si è accorti, però, che questo modello non funziona granché bene e, veloce salto in avanti, sono arrivati gli abbonamenti. Tante testate hanno iniziato a sperimentarle in varie forme (come il paywall, cioè subordinando la lettura di certi articoli, persino tutti, a una sottoscrizione) come modo per poter far tornare a pagare le persone e provare a ristabilire un collegamento fra il pagamento per l’informazione e la qualità di quell’informazione (legato tutt’altro che diretto e scontato, va detto: perché si può pagare anche per cattiva informazione).
Problema: sembra che dia fastidio anche questo. Dopo anni di informazione gratuita, l’idea di dover pagare sembra passata di moda: deve essere gratuita, scevra di pubblicità e anche di qualità. Solo che di gratuito a questo mondo non c’è niente e ogni cosa è il risultato del lavoro di un gruppo di persone. Un lavoro a cui dev’essere restituito un valore, in qualche forma: e il denaro è il mezzo più semplice per trasferire valore e per dimostrare il proprio interesse verso qualcosa (do valore a ciò che pago, non do valore a ciò che non pago).
Nei giorni scorsi, Multiplayer.it ha deciso di introdurre un abbonamento: 3 euro al mese per non avere le pubblicità. Ci sono vari piani, ma non è questo il punto: voglio soffermarmi sulla reazione di una quota – che a me è parsa tutt’altro che irrilevante – dei lettori di Multiplayer; vale a dire di quelle persone che, in teoria, sono fidelizzate e che frequentemente leggono le notizie da quella testata. Persone che sulla carta dovrebbero essere le prime pronte a voler sostenere una testata che frequentano regolarmente.
L’idea di un abbonamento, invece, è stata recepita con una grande risata: tanto le pubblicità vengono già bloccate, è il pensiero frequente.
C’è però un enorme problema: questo meccanismo qua non funziona, è deleterio ed è soltanto una strada in discesa che conduce a dinamiche editoriali sempre più difficili da controllare.
Non supportare l’informazione significa soffocare l’informazione; e ci si accorge sempre tardi – perché gli effetti sono a lungo termine – di cosa implica avere a che fare con un’informazione che deve fare lo slalom per sostenersi. Gli stratagemmi temporanei (il clickbait, per esempio) diventano meccaniche standard, alimentando un circolo vizioso che va sempre di più verso il basso. E a perderci siamo tutti: chi scrive (pagato poco e male) e chi legge (che ottiene contenuti peggiori).
L’informazione strutturata gratuita e di qualità non esiste: da qualche parte qualcuno paga (o ci perde dei soldi, il che non può essere sostenuto a lungo). Se a pagare sono le aziende, significa pubblicità; se a pagare sono i lettori, significa abbonamenti.
Né uno né l’altro significa aver deciso che l’informazione non ha valore e non merita i soldi di nessuno.