I videogiochi fisici valgono ancora miliardi di euro

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Una delle osservazioni che mi viene da fare a chi parla di videogiochi è che spesso, in un certo senso, ci dimentichiamo che anche in Italia ci sono tantissime persone che creano videogiochi. In pratica, significa che ci sono tantissime persone che conoscono come funziona tutta la produzione: la certificazione presso i produttori hardware; la configurazione di un budget; l’assunzione di nuove persone; i programmi usati per la grafica.

Sono tutti aspetti di cui si parla spesso, ma raramente facendo domande e portando la questione a chi lavora in Italia oppure chiedendo di spiegare, vista la posizione, qualcosa che non è chiaro. Nonostante chi fa videogiochi in Italia vive dinamiche paragonabili, se non del tutto simili, a chi fa videogiochi all’estero; perciò, può parlare del videogioco e di come si crea o di come si gestisce un’azienda di videogiochi con la stessa cognizione di causa di chi lo fa all’estero.

Mi sembra quindi corretto far notare quando invece questa cosa si fa e si fa anche bene, fornendo spunti, informazioni e riflessioni interessanti.

Lo ha fatto Stefania Sperandio, direttrice di Spaziogames, intervistando Matteo Sciutteri – game designer, docente e oggi direttore creativo di Bad Seed – per parlare di Intelligenza Artificiale e in particolare di quelle generative di cui si parla tanto negli ultimi tempi: come ChatGPT per i testi e Dall-E e Midjourney per le immagini.

E Sciutteri è stato chiaro: le IA si usano da tanto tempo nella produzione di videogiochi. E fare altrimenti, sarebbe ingenuo, per non dire sciocco e controproducente.

Oggi vengono usate per rifinire le texture che compongono i personaggi e il mondo di gioco o per far apprendere meglio i circuiti agli avversari in un gioco di corse motoristiche o ancora per creare delle nuove missioni attraverso modalità procedurali.

Dall’intervista:

“Usare un’IA per produrre asset o contenuti del proprio gioco è una pratica, come dicevamo sopra, diffusa e già ampiamente usata. Ci sono giochi che creano quest in maniera procedurale, con testi scritti da un’IA (Skyrim è un buon esempio). Per cui, da questo punto di vista, non vedo nessun problema etico.

Se i giocatori pensano che ogni singola cosa che finisce in un gioco (soprattutto un gioco AAA che permette centinaia di ore) siano sviluppate ‘a mano’ – beh… si stanno illudendo. Prendiamo le mappe dei giochi open world: non c’è nessuna possibilità che uno studio abbia tempo e risorse per posare a mano ogni singola pietra o ogni singolo filo d’erba. E, se anche un’azienda avesse tempo e risorse per farlo… sarebbe uno spreco.

[…]

Nessuno – e dico nessuno con una sicurezza abbastanza elevata di non poter essere smentito – che fa questo mestiere deciderà mai per scelta di privarsi di uno strumento utile a semplificare le sfide che si devono affrontare per sviluppare e pubblicare un gioco. E i giocatori dovrebbero essere ben lieti di questo: è quello che porta i videogiochi a evolvere. Se come sviluppatori avessimo deciso di non abbracciare l’evoluzione della tecnologia, a parte essere un ossimoro vivente, saremmo rimasti fermi a Pong”.

Massimiliano


Nei giorni scorsi, un dato ha fatto parlare di sé. Non tanto per il dato, quanto per la forza con cui rappresenta un fenomeno che da tempo sta avvenendo e sta trasformando il rapporto fra le persone e i videogiochi: sto parlando del digitale.

La britannica Digital Entertainment and Retail Association (ERA) – cioè “l’organizzazione fondata specificamente per agire come forum per i settori retail e all’ingrosso fisico e digitale per la musica, il video e i videogiochi” – ha comunicato che di tutti i videogiochi venduti nel Regno Unito nel 2022 l’89,5% erano in formato digitale. Un dato molto, molto alto: perché significa che il formato fisico non è una semplice minoranza, ma è praticamente quasi sparito.

Come al solito, però, i dati vanno presi un po’ con le pinze: perché c’è sempre qualcos’altro da analizzare.

La situazione nel Regno Unito

Intanto, ampliamo quanto comunicato dalla ERA. Per esempio, il 30% dei giochi venduti erano applicazioni mobile, ovverosia su dispositivi dove non esiste alternativa: su mobile o scarichi in digitale o…be’, non giochi.

Se è vero che i giochi fisici sono valsi 488 milioni di sterline, appunto il 10% circa di quanto ricavato dalle vendite di videogiochi nel Regno Unito lo scorso anno, i download su console sono poco di più: 724,7 milioni di sterline. Il resto sono giochi per mobile e tablet (1,48 miliardi di sterline) e poi una generica “altro digitale” (che credo possa includere i giochi per PC, per esempio) che è valsa 1,7 miliardi di sterline.

Già questi dati ci dicono una cosa interessante: mentre il PC è una piattaforma prevalentemente digitale (da questo punto di vista è paragonabile al mobile, che è solo digitale per ovvie ragioni), le console tengono banco. In altre parole: su console, la questione è un po’ diversa.

Sebbene il rapporto penda sempre di più verso i giochi in formato digitale, c’è una quota notevole di videogiochi per console che viene ancora venduta in formato fisico.

Sul fronte britannico, un ultimo appunto. Il Regno Unito è un mercato dove GAME è la principale catena. Una catena che è stata acquisita da un’azienda che vende capi di abbigliamento sportivo, cioè Sports Direct, e che ha deciso di chiudere tanti punti vendita GAME e di inserire gli scaffali dei prodotti sui videogiochi nei negozi di abbigliamento.

Le tante sfaccettature di questa situazione sono state raccolte in un articolo su Forbes scritto da Matt Gardner: ti consiglio di leggerlo se vuoi una breve storia.

Il succo è: in Regno Unito comprare giochi fisici è stato a lungo sconsigliabile, in virtù delle pessime politiche di GAME, e oggi è proprio difficile per via delle decisioni del nuovo proprietario di GAME. Insomma: il Regno Unito sta vivendo una situazione tutta sua.

E nel resto d’Europa?