Voglio porre l’accento sulla rilevanza e l’influenza che ha ciò di cui scriviamo, come lo scriviamo e quando. Perché dà alle altre persone un termometro del mondo; un modo per avere un’occhiata sfuggente a un argomento.
Accade per tutto: politica, economia, società, tecnologia. E ovviamente – perché è per questo che sei qui – videogiochi.
Ciò significa che parlare tanto di qualcosa dà valore a quel qualcosa (anche più di quello che ha realmente). Quando, al contrario, di qualcosa non si parla, allora la percezione che viene data a chi legge è che quel qualcosa non esista; oppure che abbia un valore molto basso, se non addirittura irrilevante.
Ciò di cui non scriviamo ha valore tanto quanto ciò di cui scriviamo.
Una delle prime cose che mi sono chiesto, più di un anno fa, quando iniziai le prime puntate di Insert Coin è stata: ma in Africa i giochi si fanno? E presumendo che sì, si fanno (perché sono un modo di esprimersi, perché l’Africa è un continente molto giovane e perché gli smartphone hanno accelerato la digitalizzazione di molti territori), chi li fa e dove li pubblica? E quanto vale tale mercato?
Le informazioni disponibili in italiano sono scarse. E in linea con quanto dicevo sopra, si potrebbe pensare che un mercato videoludico africano semplicemente non ci sia: non è così, naturalmente.
La narrazione prevalente dell’industria videoludica (e non solo; ma in questa sede tratto di videogiochi e quindi stacci) è quella dei mercati più attivi sul mercato internazionale, che sono il Nord America, l’Europa e una parte di Asia (Cina e Giappone, soprattutto: come se India, Malesia, Singapore e Filippine, per esempio, non ci fossero).
Sono i mercati più sviluppati, appunto; ma a furia di descrivere esclusivamente questi si rischia di dimenticare che il mondo è un po’ più grande di quello che abbiamo davanti ai nostri occhi. Con tutto ciò che ne consegue in termini di percezione.