La domanda “ci sono troppi videogiochi?”, ve lo dico già, non ha una vera e propria risposta. Non ce l’ha perché, innanzitutto, la risposta dovrebbe per forza fare i conti con le molteplici versioni di questa domanda.
Per esempio, quella artistica: se il videogioco è (anche) espressione, allora non ha senso chiedersi se siano troppi; perché saranno nel numero giusto, né più né meno, che serve alle persone che usano il videogioco per esprimersi e comunicare (penso a Non Binary di Owof Games o anche a Whats’ up in a Kharkiv Bomb Shelter).
Naturalmente c’è la versione più commerciale e produttiva di questa domanda; che probabilmente è quella su cui vale la pena focalizzarsi un attimo perché è anche quella più semplice da approfondire in una newsletter.
Nel 2023 su Steam sono stati pubblicati oltre 14.500 videogiochi. I dati non sono ufficiali, ma provengono da SteamDB, progetto che registra varie statistiche su Steam. Già questo numero dovrebbe farci riflettere: significa che nel 2023 ogni giorno sono usciti più di 38 giochi in media su Steam.
I numeri sono alti anche se guardiamo alle console:
- 2.600 nuovi videogiochi su Nintendo Switch;
- 1.300 videogiochi su PS4 e PS5;
- 950 videogiochi su Xbox.
Naturalmente esistono delle sovrapposizioni: molti videogiochi sono multipiattaforma e quindi sono stati considerati due, tre o persino quattro volte in questo conteggio. Ma la questione rimane.
Il primo ad averla sollevata di recente è stato il co-fondatore di Bossa Studios, Henrique Olifiers.
A Gamesindustry, commentando i licenziamenti che la società aveva da poco disposto, ha detto che la “tempesta perfetta” che li ha giustificati, a suo dire, includeva anche una notevole quantità di videogiochi ad alto budget, i cosiddetti videogiochi “AAA”, usciti nel 2023 da settembre in poi – Starfield, Super Mario Bros Wonder, Alan Wake 2, Spider-Man 2, Call of Duty: Modern Warfare III, ecc – e che hanno offuscato i videogiochi più piccoli, persino a medio budget (definiti “AA”).
In pratica: con così tanti videogiochi ad alto budget, che possono anche permettersi rilevanti campagne promozionali, è naturale che molte più persone siano andate verso queste grandi produzioni; di conseguenza, c’è stato meno spazio, meno tempo e anche meno soldi da investire in altre esperienze. Che o vengono recuperate più avanti, magari in saldo, o non vengono recuperate affatto.
“Ci sono troppi videogiochi sul mercato al momento”, ha commentato invece Benoit Clerc, responsabile delle pubblicazioni dell’editore Nacon, che nel 2023 ha pubblicato videogiochi come Il Signore degli Anelli: Gollum e Robocop: Rogue City, sempre a Gamesindustry.
Clerc ha aggiunto poi una riflessione interessante e che per questo cito: “Ciò che vediamo oggi è il risultato degli investimenti fatti dopo il Covid, quando il mercato stava esplodendo e ogni gioco faceva un sacco di soldi per cui sono stati fatti molti investimenti. Ora sono passati due o tre anni da allora, così i giochi che stiamo vedendo oggi sul mercato sono stati finanziati in quel periodo e sono semplicemente troppi perché i consumatori possano giocarli”.
Da una parte, l’accumulo di così tanti videogiochi, specialmente su Steam, è la conseguenza della graduale democratizzazione degli strumenti di sviluppo. Vale a dire che a un certo punto sviluppare un videogioco è diventato fattibile anche al di fuori delle grandi aziende; e piccoli gruppi di persone o addirittura singoli individui hanno avuto l’opportunità di creare varie esperienze: e alcune di queste sono diventati grandi successi, da Minecraft a Fez.
Perciò la democratizzazione è sicuramente una cosa positiva: come chiunque può scrivere un libro, oggi – in pratica – chiunque può creare un videogioco, anche tramite strumenti semplici come Bitsy, anche non a scopo di lucro. Ciò vale prevalentemente per il mondo PC: dove infatti la quantità di videogiochi pubblicati su Steam (e anche di più su Itch.io) è diverse volte più vasta di quella che arriva sulle console.
Dall’altra parte, una presenza così incredibile di videogiochi produce un effetto a valanga: farsi notare è sempre più difficile o è sempre più legato alla capacità degli sviluppatori (o degli editori) di iniettare molti soldi per le campagne promozionali.
Inoltre, una maggiore concorrenza significa che sempre meno videogiochi riescono a essere venduti a prezzo pieno; quindi gli sviluppatori, per farsi notare, devono scontare di molto il loro prodotto, anche di percentuali superiori al 50%. In pratica, significa che devono svendere il proprio videogioco per attirare più utenti.
C’è un ulteriore aspetto del settore attuale da evidenziare e che ha descritto bene Simon Carless nella sua newsletter.
Il fatto che le console di ultima generazione – cioè PlayStation 5 e Xbox Series X|S – siano retrocompatibili significa che i videogiochi di oggi, quelli che escono in questi mesi, devono confrontarsi non solo con gli altri videogiochi dello stesso genere usciti di recente; ma anche con quelli usciti negli anni scorsi e che però ora sono in sconto. Anche dello stesso editore/sviluppatore.
In passato (molto passato) ciò non succedeva: con il Super Nintendo non si poteva giocare ai videogiochi per il Nintendo Entertainment System; con il Dreamcast non si poteva giocare ai videogiochi del Saturn e via dicendo. (Qualche caso rimane: su Switch non si possono giocare ai videogiochi di Wii U, per intenderci). Oltre al fatto che la prevalenza dei videogiochi in formato fisico rendeva più difficile recuperare vecchi videogiochi, che nei negozi erano spariti, sostituiti da quelli nuovi. Questi due aspetti permettevano di evitare, soprattutto su console, che i cataloghi diventassero così grandi nel tempo: oggi ci sono oltre 79.000 videogiochi su Steam; 11.500 videogiochi su Nintendo Switch; 7.000 su PlayStation 4 e PlayStation 5 e 6.000 su Xbox.
“Ora che l’hardware da gioco è sufficientemente sofisticato, la distribuzione del software è digitale e la retrocompatibilità è molto più possibile, non pensiamo che ciò possa succedere di nuovo* (*A meno che Switch 2 faccia qualcosa di davvero strano!). E il tuo nuovo videogioco spesso si trova a competere con il tuo precedente videogioco dello stesso genere – che potrebbe trovarsi in forte sconto”, ha scritto Carless.
L’enorme produzione videoludica, quindi, è un problema innanzitutto commerciale: troppi videogiochi, naturalmente, fanno emergere quelli più capaci di vendersi bene. Ma rende anche più difficile scoprire videogiochi nuovi, specialmente quando il catalogo di piattaforme come Steam 1) è già ricchissimo e 2) deve fronteggiare dozzine di videogiochi nuovi ogni singolo giorno.
Questo fenomeno, tutt’altro che nuovo, è un problema anche creativo: se devo rischiare meno, allora preferisco puntare su esperienze di gioco già note, con meno probabilità che non piacciano agli utenti.
È un problema anche industriale: perché potremmo vedere, e secondo me già lo stiamo vedendo, sempre più aziende che faticano a passare da un videogioco all’altro e quindi sono costrette a licenziare, a chiudere uffici o a chiudere del tutto.
Allo stesso tempo, scrivendo questo approfondimento, ho notato una banalità: e cioè che la domanda “ci sono troppi videogiochi”?” potrebbe valere anche se sostituissi “videogiochi” con qualcos’altro. Con “podcast”. O con “newsletter”. O con “servizi di streaming di film e serie TV”. O con “libri”.
Ogni tipologia di contenuto sta vivendo un momento di forte espansione: sia perché tutte le aziende provano a inserirsi in un nuovo mercato (e così via a dieci applicazioni per lo streaming musicale; e dieci applicazioni per lo streaming video; e così via) sia perché in un po’ tutti i settori c’è stata la democratizzazione di cui sopra. Che ha due facce: una, quella di poter dire “l’ho fatto anch’io”; e l’altra quella di sperare di poterci campare, con questa cosa, che sia un videogioco, una newsletter o un album musicale. Scoprendo che uno su mille ce la fa, come cantava Morandi.
I videogiochi però hanno caratteristiche proprie. Tutto ciò, per esempio, si sta verificando in un periodo storico di questa industria in cui esistono videogiochi che non finiscono mai – i vari Fortnite, i Minecraft, i Counter-Strike 2, i Final Fantasy 14 – e in cui la longevità media dei videogiochi cosiddetti mainstream si è allungata; anche se poche persone li finiscono davvero.
Se passiamo sempre più tempo sui videogiochi mainstream, che sono sempre di più, allora diventa più difficile scoprire nuove esperienze e far emergere nuovi studi di sviluppo; che a loro volta devono capire quando far uscire il loro videogioco cercando di non posizionarsi in un periodo già affollato.
Certamente oggi stiamo vedendo arrivare sul mercato, come diceva Clerc, le attività pensate, progettate e finanziate 3, 4 o persino 5 anni fa; quindi non stiamo ancora assistendo a quella correzione del mercato – in termini di impatto sulle esperienze o persino della quantità di esperienze – che oggi molte realtà aziendali ritengono necessaria (e da qui i tantissimi licenziamenti) per poter sopravvivere in un contesto commerciale e produttivo ed economico più stratificato del passato. Gli effetti di questa correzione li vedremo fra 2-3 anni almeno.
Inoltre, bisogna considerare che oggi ci sono milioni e milioni di persone in più che giocano ai videogiochi rispetto agli anni Novanta, per esempio: e chi gioca a Spider-Man 2 potrebbe non essere interessato a Super Mario Bros Wonder; e chi esplora i videogiochi su Itch.io potrebbe disinteressarsi, invece, dei videogiochi su PlayStation, Xbox e Nintendo.
Lo avevo detto che rispondere alla domanda non era semplice.
“Ci sono troppi videogiochi?”, infine, è una domanda che c’entra molto con il modo in cui viene vissuto questo settore: se l’idea è sapere tutto di ogni cosa; se si sceglie di seguire i videogiochi mainstream e anche scovare nuove esperienze indipendenti e anche riuscire a ritagliarsi del tempo per recuperare i videogiochi lasciati indietro; se si cerca di star dietro un po’ a tutto e rimanere connessi con qualunque movimento di questo settore; insomma, se l’intenzione è di non perdersi niente, allora l’aumento del numero di videogiochi è una notizia tremenda, generatrice di ulteriore paura di perdersi qualcosa (grossolana traduzione della Fear Of Missing Out, o FOMO).
L’alternativa a questo sistema, però, potrebbe essere persino peggio: cioè tornare a un mondo videoludico dove gli strumenti di sviluppo e le opportunità di pubblicazione sono così poco accessibili che creare videogiochi torni a essere soprattutto appannaggio delle grandi società. Un’alternativa che non mi sento di auspicare perché credo che la normalizzazione del videogioco passi anche da chi sceglie di usarlo per comunicare, per mandare messaggi o anche solo per viverci, con numeri modesti e guadagnando abbastanza da finanziare anche il progetto successivo.
Mi viene allora un’altra domanda: fino a che punto il numero di videogiochi usciti ogni anno può continuare ad aumentare senza che qualcosa si rompa del tutto?