Il problema siamo noi?

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Martedì mattina, durante la consueta puntata di 24 Mattino, Paolo Mieli, giornalista di lungo corso, ha brevemente parlato di videogiochi. Lo ha fatto, in realtà, con un’anticipazione: dicendo che il giorno successivo avrebbe parlato di “una nuova PlayStation che tratta temi LGBT con la storia di due giovani ragazze lesbiche che innescano una relazione con un trans”. Ha fatto accenno a Naughty Dog, il che, quindi, ha lasciato intendere che si riferisse a The Last of Us: Parte 2, in cui la protagonista, Ellie, è lesbica e ha una relazione con un’altra ragazza, Dina.

La triste descrizione del gioco è bastata a sconcertare la maggior parte delle persone che seguono i videogiochi con interesse quotidiano. Innanzitutto perché “una nuova PlayStation che tratta temi LGBT” semplicemente non ha senso: al massimo c’è un nuovo gioco che lo fa; la console no. L’idea era che, poi, Mieli potesse trasmettere il messaggio che nei videogiochi si tratta un tema (la sessualità) che non andrebbe trattato nei videogiochi. Il problema? Alla fine, Mieli non ne ha mai parlato davvero; il giorno dopo è intervenuto nella trasmissione come al solito e come se niente fosse stato detto il giorno prima.

In molti ci sono cascati, sempre che di trappola si possa parlare. Io per primo.

A questo punto, non resta che chiedersi: il problema siamo noi, che appena qualcuno prova a intervenire in maniera ignorante sui videogiochi reagiamo stizziti?

Molti hanno suggerito che in queste occasioni bisognerebbe stare indifferenti perché persone come Mieli, estranee al videogioco, probabilmente non riescono più a essere incluse in un dibattito adulto su questa industria; che reagire così, semmai, consolida l’idea che se tocchi i videogiochi, ti arriva l’esercito di ragazzini incavolati sotto casa.

Io non sono d’accordo.

Primo perché anche se ti hanno preso a pugni in faccia per una vita intera, un altro pugno in faccia fa comunque male; quindi, quando vedi qualcuno che alza il braccio, provi a pararti, quanto meno.

Secondo, in modo meno metaforico, perché il solo intervento di Mieli ha raggiunto migliaia di persone che ascoltano quella trasmissione. In quanto figura pubblica può raggiungere moltissime persone, alcune delle quali hanno già probabilmente dei pregiudizi nei confronti del videogioco. Io posso fare il lavoro di informazione migliore del mondo; ma mi rivolgo a persone che molte cose già le sanno, sui videogiochi. Più lo stereotipo viene rafforzato e più è difficile demolirlo.

Non dico che sia necessario essere evangelisti del videogioco e criticare chi non gioca, ci mancherebbe. La differenza sta nel riconoscere che, a prescindere che ti piaccia o no, che ti interessi o no, l’industria videoludica esiste e va perlomeno rispettata nel suo essere un settore creativo, produttivo e di intrattenimento. Rafforzare pregiudizi, invece, significa rendere complesso per chi fonda un nuovo sviluppo andare in banca a chiedere un prestito, ricevere supporto finanziario dalle istituzioni e poter lavorare nel settore senza essere visto come un fancazzista.

Siamo lontani dagli anni 70 e 80, ma la percezione è ancora quella di videogioco = perdita di tempo. Ogni singola parola di Mieli porta indietro il dibattito di anni. Per cui, se un giornalista, un conduttore o un politico fa un breve accenno simile quando si rivolge a un pubblico vasto, allora sì, è giusto che ci si incazzi.