Ci siamo incastrati.
Ci siamo incastrati in un meccanismo produttivo e comunicativo attorno ai videogiochi che sta mostrando molte crepe. Le sta mostrando tutte insieme e forse non siamo pronti a realizzare che quelle crepe c’erano già dieci anni fa: ma abbiamo finto di non vedere o, tutto sommato, ci è sembrato che non potessero essere tali da mettere in discussione l’intera struttura.
Il PlayStation Showcase del 24 maggio – al di là dei meriti e dei demeriti: non mi interessa analizzarli in questa sede – è stato accolto malamente: vari trailer che non mostravano il gameplay; vari giochi che arriveranno anche su PC e su Xbox; poche occasioni per capire a cosa stanno lavorando molti studi interni a PlayStation, come Bend Studio (Days Gone) o Media Molecule (Dreams) o Sucker Punch (Ghost of Tsushima).
Reazioni legittime e che in parte condivido. Ma chi mi segue e mi conosce ha ormai capito che io sto lottando l’hype con un altro estremismo: quello del disinteresse verso qualunque presentazione, sempre e comunque.
Il punto della questione, per me, è un altro:
- chiediamo alle aziende di proporre giochi sempre nuovi, sempre più grandi e sempre più belli, che richiedono tempi di gestazione sempre più lunghi (e che possono arrivare a costare, fra produzione e marketing, un miliardo di dollari);
- chiediamo alle aziende di mostrare novità concrete (anche qui: il concetto di cosa sia “concreto” è molto versatile e soggettivo) ogni pochi mesi perché 3-4 eventi all’anno (com’era quando la tabella di marcia era scandita da Game Developers Conference, E3, Gamescom e Tokyo Game Show) non bastano più;
- chiediamo di farlo in modo sempre più sorprendente, ormai anestetizzati al livello di stupore precedente.
Una crescita esponenziale che non può fare altro che generare un mostro: e così è stato.
Serve un cambio di passo
Ci troviamo a un punto storico, per il settore, in cui la comunicazione si è talmente arrotolata su se stessa, che non può fare altro che inciampare, cadere e farsi male: e quando succede – più o meno dopo quasi ogni presentazione di un grande editore – siamo pronti a puntare il dito e a prenderla in giro.
Non viviamo i videogiochi. Viviamo l’attesa dei videogiochi.
Perché quanto ho scritto sopra significa che siano rimasti catturati da un circolo vizioso da cui uscire è – a oggi – impossibile.
Le vicissitudini commerciali e comunicative fanno sì che le aziende – per attirare l’attenzione dei talenti e dei potenziali consumatori – annuncino i giochi con molti anni di anticipo (Game Freak ha annunciato una collaborazione con Private Division per un gioco che uscirà nel 2026); che quei giochi vengano presentati, all’inizio, con solo i loghi o solo i trailer in computer grafica; poi vengano proposti, tempo dopo, con un video di gameplay, ma poi, quando vengono ripresentati una seconda volta, appaiano già visti – e quindi non più adeguati ad alimentare il più grosso problema di questo settore: la macchina dell’hype, dell’entusiasmo a tutti i costi.
Tempo fa mi sono chiesto se tante caratteristiche del settore moderno potessero portarci verso un’altra grande crisi dei videogiochi come quella che colpì gli Stati Uniti fra il 1983 e il 1984 (spoiler: evidentemente no).
Forse, però, c’è un’altra crisi; e che non è lontana, ma è già qui. Ed è la crisi di un modello produttivo e comunicativo ormai troppo ingombrante per essere sfilacciato, troppo incasinato per essere risolto.
Il costante ciclo delle aspettative e delle delusioni è parte di qualunque cosa, nella vita. Ma quando l’aspettativa viene regolarmente alzata a livelli enormi, allora non è una coincidenza: è recidiva; è la lingua di un settore che non sa come altro parlare, sia verso l’esterno sia a se stesso.
È un settore in cui la normalità è che tutto sia anormale.
Qual è la soluzione?
La soluzione è tante cose e nessuna di queste: è un cambio del modo di produrre i videogiochi, di viverli e di comunicarli, che non so se è possibile arrivati a questo punto.
Si tratta di comprendere e di soppesare meglio le dinamiche di un settore che si sta torcendo su se stesso sempre di più; di riflettere sul fatto che ciò che commentiamo più spesso sono gli annunci dei principali editori: e che il mercato invece è molto, molto più grande e che se Sony o Microsoft o Nintendo hanno un trimestre morbido, allora non significa che è l’inizio della fine.
Si tratta di comprendere che chiedere sempre di più, sempre più in fretta e cose sempre nuove ha un limite: non è possibile. Escono centinaia di giochi ogni settimana e ne conosciamo un decimo.
Non è possibile continuare a crescere a un ritmo vertiginoso; non è sensato odiare i “more of the same”; non è virtuoso azzerare, a ogni presentazione, tutto il discorso videoludico precedente e credere che ogni volta si debba sempre e comunque svuotare la barra dell’hype e averla bella carica alla fine dell’evento.
Sono consapevole, mentre scrivo queste parole, che rischio di suonare pedante e persino populista. Il mio è un invito; il tentativo di rendere un po’ più umano questo settore.
Perché dietro agli annunci di corsa, ai trailer frettolosi, agli accordi annunciati con sette anni di anticipo e ai giochi enormi che escono con problemi tecnici c’è il tentativo affannato di stare al passo di una meccanica produttiva e comunicativa che sta svilendo il fattore umano e creativo e che sta ponendo tutti gli attori coinvolti – chi pubblica, chi sviluppa, chi scrive, chi guarda, chi legge, chi ascolta: ogni persona – in una condizione in cui si lavora male e si viene pure denigrati per ciò che è stato realizzato. In cui bisogna puntare il dito per capire di chi è stavolta la colpa: della stampa o dei PR o dell’editore o del pubblico.
Quanto è sano andare avanti così?