Spesso affrontiamo il videogioco nella sua accezione di prodotto elettronico, puro e semplice. A volte – anche in questa newsletter – viene indagato nella sua forma di bene virtuale, che ha quindi un contesto commerciale e culturale in cui inserirsi e di cui vanno analizzate le sfumature che lo hanno portato a essere ciò che è.
A volte, in casi più rari, possiamo persino scrutare come sarebbe potuto essere e invece alla fine non è stato. Non un bene qualunque, per carità, perché un videogioco può essere anche capace di esplorare finalità di vario genere, persino escatologiche e profondamente emotive, e di offrire spunti forieri di grandi riflessioni, tanto personali quanto sociali.
Lo facciamo, però, guardando a quel pezzo di bit, analizzandone ogni angolo e ogni anfratto; assaporando ogni nota della colonna sonora o persino ogni parola del dialogo fra i personaggi: lo facciamo nello stesso modo in cui si analizza un oggetto.
Quel prodotto elettronico, che sia il frutto di attente scelte di marketing ed estese analisi di mercato o di un impeto di lanciare un messaggio, è metà del racconto: l’altra metà è chi quel videogioco, a vario titolo, lo ha creato. Chi lo ha toccato durante lo sviluppo; chi ha plasmato quell’opera, anche in piccola parte; chi, magari, ha rinunciato a qualcosa per poter concedere qualche ora in più del proprio tempo alla pulizia del codice o all’aggiunta di un’animazione.
E in questo modo, stiamo sminuendo il racconto perché lo stiamo rendendo la semplice somma delle sue parti senza affrontare l’altra faccia della medaglia. Senza parlare delle persone e delle loro storie; di ciò che hanno fatto o non fatto; di ciò che hanno detto o non detto a noi arriva solo la meta finale di quel viaggio durato anni.
Quando parliamo del videogioco senza tentare di esplorare tutto il resto, rischiamo di sfociare in una deumanizzazione del videogioco stesso. Quando in realtà si tratta di uno strumento che veicola uno o più messaggi e che è stato creato e formato da un gruppo di persone per raggiungere un altro gruppo di persone, più ampio, più eterogeneo e più sfaccettato. Il videogioco è l’equivalente di una bottiglia di vetro con dentro un biglietto di carta lanciata in mare e che raggiunge le persone dall’altra parte del mondo.
Le persone non si appassionano, però, al “pezzo di ferro”, passatemi l’espressione. Non si interessano dei codici: intrecciano la propria vita con quella di altre figure, a volte distanti e a volte vicine. In quelle figure distanti, c’è a sua volta un altro mondo, fatto di gesti, di parole, di rinunce, di sacrifici. Di relazioni, di movimenti, di sapori.
Non è un caso che gli aneddoti che vengono tramandati di generazione in generazione sono quelli personali. La nascita del primo easter egg, con Warren Robinett di Atari che voleva che venisse riconosciuto il suo lavoro, anche al costo di manovrare il codice a suo piacimento; quando il direttore creativo di Ubisoft Milan, Davide Soliani, si è commosso nel momento in cui Shigeru Miyamoto sul palco ha parlato di Mario + Rabbids; della tragica vicenda vissuta dalla famiglia Greene e che ha portato allo sviluppo di That Dragon, Cancer.
Non abbiamo bisogno di più videogiochi. Abbiamo bisogno di più storie.