Nei giorni scorsi si è fatto molto parlare di un cesto di Natale che una serie di redazioni italiane ha ricevuto da parte di Sony Interactive Entertainment Italia.
Si tratta, chiaramente, di uno dei tanti regali che le aziende – di videogiochi e non, perché capita anche in altri settori della tecnologia e non solo – inviano alle redazioni come pegno della buona relazione che intercorre fra di loro.
Il problema non era tanto il cesto in sé: era finalizzato a fare beneficenza e conteneva del cibo. Era un regalo “innocuo”.
Il problema è che la fotografia di quel cesto è stata pubblicata dai rappresentanti delle principali redazioni con parole ed espressioni molto positive, persino entusiastiche, nei confronti di quel gesto dell’azienda.
Si tratta dell’ennesimo caso che descrive il rapporto che intercorre fra le aziende e le redazioni di videogiochi; un rapporto che è certamente sbilanciato verso le aziende: sono quelle che danno i codici in anteprima; pagano la maggior parte delle trasferte in Italia e all’estero affinché le redazioni possano fare delle interviste più lunghe, possano interfacciarsi con chi sta sviluppando il videogioco o lo possano provare in anteprima.
Questo rapporto sbilanciato prende forma – anche, ma non solo – attraverso questi pacchi, di qualunque forma siano: perché alimentano, in piccola parte, la retorica delle redazioni che sono corrotte e pagate dalle aziende per parlare bene dei loro videogiochi.
Qua nessuno sta pensando che basti un pacco contenente del salame per influenzare realmente il lavoro delle redazioni. Però c’è un problema di fondo: quando il rapporto fra le aziende e le redazioni viene espresso platealmente in modo così amichevole, di fatto si sta evidenziando quello che è un problema dei settori come quello dei videogiochi: l’informazione esiste soprattutto perché le aziende la sostengono, a vario titolo e in vario modo, fornendo i contenuti e le modalità preferenziali per accedere a quei contenuti.
Facciamo, allora, un piccolo gioco: immaginiamo che quella stessa cosa, capitata nel piccolo dell’informazione italiana sui videogiochi, riguardasse un altro settore e altri giornali; e che oggi, invece, stessimo parlando di un regalo, di qualunque tipo o qualunque importo, che una società come Eni ha fatto alle redazioni dei quotidiani italiani e che chi lavora in queste redazioni se ne vantasse pubblicamente.
Oppure, ancora, che una qualunque redazione operante nel settore del fashion e della moda, pensate a qualunque rivista, vanti sui propri social di aver ricevuto un vestito o un dono da parte di una qualunque società della moda.
Cosa penseremmo del rapporto che intercorre fra quel giornale e quell’azienda?
Riusciremmo per davvero a pensare che sia completamente scevro da un conflitto di interessi o che i giornalisti e le giornaliste di quella testata, quando sarà il momento di parlare di quell’azienda, riusciranno a essere scevri da qualunque influenza, anche minima?
Il dubbio, di per sé, è già un problema grave perché mina il rapporto di fiducia e di credibilità che deve esserci fra chi scrive e chi legge: quel dubbio si diffonde, poi, a tutto il lavoro redazionale.
Il problema nasce da qua: dalla difficoltà di separare le aziende di videogiochi dall’informazione sui videogiochi.
È vero che questa caratteristica è comune ad altre industrie; però si può scegliere di fare qualcosa di più per ridurre l’ombra di quel dubbio.
Si può scegliere di non pubblicare queste foto. Si può scegliere di non vantare questi regali sui social network. Si può persino scegliere di non accettarli, questi regali.
E non perché si pensa che basti un cesto natalizio a influenzare il voto di una recensione. E magari, chi lo sa, togliendo queste foto non cambierebbe niente. Quel che è certo è che non si potrebbe peggiorare ulteriormente la situazione.