“Mi hanno consigliato di non parlare”

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Questa settimana si è parlato di nuovo di Six Days in Fallujah, videogioco edito da Victura e sviluppato da Highwire Games ambientato durante la battaglia di Fallujah, in Iraq. Ho eviscerato molti dei problemi del gioco in una passata newsletter: eccola. Questa settimana, Alanah Pearce, che lavora per Sony Santa Monica, ha scritto su Twitter che le è stato consigliato di non commentare il gioco perché ciò “avrebbe messo a rischio il mio visto”.

Si tratta di un’affermazione molto drammatica e che, in particolare, evidenzia quanto il gioco sia fortemente politico: deve rappresentare gli Stati Uniti in un certo modo; chi prova a dire il contrario – sottolineando che Six Days in Fallujah propone una prospettiva falsata, omette dei particolari sensibili sulle vittime civili irachene oppure sull’uso del fosforo bianco o non tocca gli atti criminali commessi dai mercenari assoldati dagli Stati Uniti – rischia persino di subire delle ripercussioni. 

Il primo trailer del gioco ha raccontato di come sfrutterà la generazione procedurale per le varie ambientazioni. Il che è altrettanto drammatico: le abitazioni e le famiglie realmente coinvolte non sono state rappresentate com’erano; invece diventano parte di un algoritmo che le ricrea in modo che servano lo scopo del gioco. Quale scopo? “I marine ci hanno detto – ha spiegato il direttore creativo del gioco, Jaime Griesemer – che non sapevano mai cosa li avrebbe aspettati dietro la prossima porta. Ma, nei videogiochi, giochiamo alle stesse mappe ancora e ancora. Il solo sapere la disposizione di un edificio in anticipo rende i combattimenti nei videogiochi molto diversi dal combattimento vero e proprio”.

Six Days in Fallujah vuole, in particolare, raccontare cosa prova un soldato quanto entra in un’abitazione dove potenzialmente può incontrare qualunque pericolo (una trappola, per esempio). Per ricreare invece le persone innocenti che vivevano all’interno delle abitazioni viene usato non il racconto delle persone e le fotografie scattate, ma un algoritmo, che diventa non strumento per un racconto fedele, bensì alleato per scomporre e ricomporre una nuova visione del racconto.