Ogni mese porta con sé nuove informazioni sui prossimi titoli in uscita: trailer, immagini, commenti degli sviluppatori. L’intento è naturalmente quello di tenere il più possibile costante l’attenzione degli utenti verso quel gioco, in modo che quando uscirà tutti lo sapranno.
Ogni mese ci si aspetta che si parli dei giochi che arriveranno perché evidentemente quelli che già ci sono non bastano.
Vorrei farti vedere la mia lista di “giochi da giocare” (faccio liste per qualunque cosa): è modesta, ma al momento completarla prevede impiegare oltre 300 ore. Se giocassi un’ora al giorno tutti i giorni, impiegherei dieci mesi solo a finire questa lista, che contiene giochi passati ed è molto filtrata rispetto a tutti quelli che vorrei giocare (o che possiedo e so che non giocherò mai).E nel frattempo avrei accumulato molti altri giochi, usciti in quei dieci mesi, che hanno attirato il mio interesse oppure ne avrei scoperti altri ancora, già usciti ma che non conoscevo.
Insomma, non riesco a star dietro a quello che è già uscito ed è per questo che fatico a entusiasmarmi per i giochi che arriveranno: fanno parte di un meccanismo di continuo consumo di contenuti (e non di esperienze) che finisce per estirpare ogni significato dall’atto del giocare. Un meccanismo che io per primo ho alimentato negli anni con i continui bundle distribuiti a pochi euro e che puntualmente per anni ho acquistato (ho smesso).
Se fermassimo la macchina produttiva oggi, avremmo centinaia di videogiochi fantastici da giocare: fai un salto su Itch.io per capire che cosa intendo. Nel mare di informazioni sui giochi del futuro, ce ne dimentichiamo troppo spesso.
Massimiliano
Le persone dietro ai videogiochi
Anni fa scrissi un editoriale nel quale definivo la Game Developers Conference (GDC) la botta di onestà di cui l’industria videoludica ha bisogno. Vedi, durante la GDC, evento pensato per gli addetti ai lavori, gli sviluppatori parlano in modo chiaro e trasparente di cosa ha funzionato oppure no in un loro gioco; di cosa hanno sbagliato e di quello che avrebbero fatto diversamente.
Ho ripensato a quell’editoriale in questi giorni leggendo i commenti al trailer di God of War Ragnarok. Il gioco sembra riusare molti dei contenuti (dalle animazioni ai personaggi) già visti nel precedente capitolo del 2018. In questi casi viene usata l’espressione “more of the same” (traducibile grossolanamente come “un altro po’ della stessa cosa”) a indicare un gioco che è una versione 1.5 del precedente: lo amplia, ma senza distaccarsi granché.
Il punto è che in mancanza di una piena e più frequente onestà e trasparenza, gli utenti faticano a comprendere quanto sia complesso creare un videogioco. God of War ha chiesto cinque anni di sviluppo; ci hanno lavorato centinaia di persone ed è costato decine di milioni di dollari.
Il game director di God of War, Cory Barlog, e il game director di God of War Ragnarok, Eric Williams, hanno spiegato che il prossimo gioco chiuderà la saga norrena perché spendere 15 anni per una trilogia (cinque anni per ciascun capitolo) è impensabile, secondo loro. “Sarebbe stato semplicemente troppo lungo”, ha detto Barlog.
In particolare, ho trovato fondamentali le parole che proferì Barlog nel 2019, qualche mese dopo il debutto di God of War su PS4. Le ho trovate centrate perché mostrano in maniera chiara e netta quanto possa essere stancante creare un videogioco e quanto sia difficile farne uno, in particolare, così grande e che coinvolge così tante persone.
“Ogni gioco a cui ho mai lavorato e ogni gioco di cui mai parlerò è brutto come l’inferno finché non è più brutto” ha detto, per esempio. Riferendosi al fatto che un videogioco arriva a completamento soltanto pochi mesi prima del lancio: prima è un conglomerato di pezzi montati insieme grossolanamente; non ha la finitura di un prodotto completo (e tanti giochi non ce l’hanno nemmeno una volta usciti, vedasi Cyberpunk 2077 o Assassin’s Creed Unity).
Un’altra frase che, per me, devi segnarti: “Per il 50 per cento del tempo, il 50 per cento delle persone non sta supportando la tua idea”. Barlog in questo caso si riferisce alla difficoltà di allineare tutte le persone sullo stesso obiettivo: alcuni non saranno convinti di ciò che il team sta facendo, che sia una nuova missione o un approccio diverso dai precedenti.
Nel caso di God of War, per esempio, è stato l’inserimento del figlio del protagonista, che aiuta nelle battaglie e nella risoluzione degli enigmi, che ha previsto dinamiche a cui Sony Santa Monica non aveva mai lavorato e per cui sono servite figure esperte in questa materia. Figure che Sony ha faticato a trovare fino a sviluppo inoltrato: per qualche tempo, la presenza del figlio del protagonista avrebbe potuto essere rimossa da un momento all’altro.
Infine, Barlog ha riassunto cosa vuol dire portare avanti un progetto videoludico: “È stancante. È stressante. Ci sono un sacco di dubbi e un sacco di preoccupazione. E questo per ogni progetto”.
Ecco perché i “more of the same”: dopo che centinaia di persone hanno speso cinque anni a realizzare tutto, è impensabile che il capitolo successivo possa rifare tutto da capo – dalle animazioni ai modelli dei personaggi e le meccaniche di gioco.
Twitch contro YouTube
Un paio di articoli del Washington Post hanno riassunto lo stato della battaglia commerciale fra Twitch e YouTube per assicurarsi gli streamer più popolari e, soprattutto, il tempo che gli utenti passano a vedere in diretta altre persone che giocano.
Recentemente, due volti molto popolari di Twitch (Ben “DrLupo” Lupo e Tim “TimTheTatman” Betar) sono passati a trasmettere in esclusiva su YouTube. A giudicare dalle parole di Lupo (“sono a posto per la vita”) il fattore economico ha giocato un ruolo rilevante nella decisione di lasciare Twitch.
Due, secondo me, le cose importanti:
- Twitch non sembra aver sentito l’impatto. Semplicemente perché seppur popolari DrLupo e TimtheTatman rappresentavano lo 0,3% delle visualizzazioni complessive su Twitch;
- lo spostamento su un’altra piattaforma non implica anche il travaso dell’intero pubblico. Gli utenti più affezionati seguono gli streamer ovunque vadano, mentre altri (la maggior parte) rimangono su Twitch perché si trovano bene con Twitch; quindi, trovano un’altra persona da seguire che trasmette lo stesso gioco. Ashley “Ashnichrist” Christenson ha commentato che “sei più un parafulmine all’interno della grande comunità di Twitch che può attirare alcune persone all’interno di tale spazio”.
[In tal senso, ho trovato interessante una recente puntata della newsletter di Valerio Bassan, nel quale parla di quanto sia importante non focalizzarsi su una sola piattaforma: perché quel pubblico sarà della piattaforma, che potrà decidere quando togliertelo.]
Secondo la ricostruzione del Washington Post, un ulteriore fattore che ha pesato sulla scelta di passare a YouTube è la strategia commerciale di Twitch: puntare sulle pubblicità, che interrompono però la trasmissione per qualche secondo e quindi sono malviste dagli streamer. I nuovi contratti, inoltre, erano meno ricchi di quelli precedenti per una quantità di lavoro quasi uguale. Tieni a mente che YouTube trattiene il 30% dei ricavi; Twitch il 50%.
Da parte sua YouTube, che per ora resta molto dietro a Twitch quando si parla di dirette di videogiochi, ha un altro vantaggio: i video restano lì e possono continuare a monetizzare anche se il creatore di contenuti non è online.
The Vale: Shadow of the Crown è un’esperienza da provare
The Vale: Shadow of the Crown è un gioco pensato per essere accessibile, specialmente per gli ipovedenti: non ha una grafica; il gioco è totalmente basato sull’audio e sull’uso di pochi comandi sulla tastiera. È un’avventura fantasy in cui la protagonista è una principessa cieca, che può affrontare missioni secondarie e interagire con altri personaggi e deve viaggiare nel regno per ritrovare la sua famiglia. Puoi immaginarlo come un audio libro interattivo.