Capita spesso di discutere di cosa sia un videogioco. Non mi riferisco a cosa sia IL videogioco, ma di quali caratteristiche connotano uno specifico videogioco: cosa rende Final Fantasy ciò che è; cosa rende God of War, God of War; e così via.
Se n’è parlato, per dire, quando è uscito Final Fantasy 16, che ha messo da parte tante caratteristiche ruolistiche in favore di un’esperienza più lineare e diretta: è ancora Final Fantasy? Sì, secondo i suoi creatori.
(Lascio da parte questioni commerciali per cui Final Fantasy 16 è Final Fantasy intanto – e forse innanzitutto – perché è un marchio commerciale molto spendibile.)
La discussione ha due schieramenti. Da una parte, appunto, chi i videogiochi li crea; dall’altra chi ne fruisce. E ciascuno di questi schieramenti ha una sua idea, che, peraltro, continua a mutare nel tempo: esattamente come il videogioco negli anni 80 era Super Mario Bros e oggi è (anche) Fortnite; che è una cosa molto più sfaccettata.
Se c’era un videogioco che, nel bene e nel male, è sempre rimasto fedele a un certo modo di intendere il suo genere e di intendersi era, appunto, Super Mario Bros.
Eppure, Super Mario Bros Wonder ha buttato all’aria tanti capisaldi dell’esperienza originale – se così vogliamo chiamarla. Oggetti che non dovrebbero muoversi si muovono; le trasformazioni garantite dal “Fiore Meraviglia” ribaltano, anche a livello di gioco, ciò che il personaggio di turno può fare o l’impostazione della visuale di gioco o tanto altro; aspetti che credevamo immutevoli e identificativi di cos’è un videogioco della serie Super Mario Bros e che ne descrivevano la sostanza.
Anche per questo – e chi ascolta le Chiacchiere del podcast lo sa – io ho giocato a Super Mario Bros Wonder con meno meraviglia, ma con tantissimo interesse: perché, ancora oggi che ho completato la “storia”, continuo a chiedermi e a riflettere su cosa ho avuto davanti agli occhi; e su cosa, in fondo, renda Super Mario Bros ciò che è, se persino Nintendo – ritenuta una delle aziende più reazionarie di questo settore – ha cambiato radicalmente tanti concetti della serie, persino dei dogmi, scavando nel terreno della sua serie per ritornare in superficie con un’opera nuova.
E tutto questo ragionamento, che non nasce certo adesso con questa introduzione, è rafforzato dal fatto che i generi sono sempre più trasversali; e così elementi da gioco di ruolo si trovano persino nei giochi di calcio; oppure nei videogiochi in cui in passato si doveva solo pensare a sparare ora vengono aggiunti anche elementi strategici. Mischiare i generi, anzi, è un’ottima leva per creare nuove esperienze di gioco.
Allora la risposta che io ho provato a darmi – forse suggestiva e forse comoda, me ne rendo conto – è che anche lo specifico videogioco, se si prova a toccare il suo scheletro, in fondo non è altro che un’idea; non un insieme di caratteristiche tecniche e ludiche.
Tornando all’esempio di prima se Super Mario Bros può cambiare così tanto fino al punto di non sembrare, da un certo punto di vista, un Super Mario Bros, allora ciò che è ha più a che fare, forse, con ciò che vuole dire o come vuole far sentire chi sta giocando: meravigliato, spensierato, sfidato, impaurito, confuso, allegro.
Penso, insomma, che non esista una serie di videogiochi che non possa trasformarsi – o che, al contrario, per forza debba farlo – e che tutta questa idea fissa di cosa sia un videogioco nasca più da un nostro impulso di incasellare le esperienze per confrontarle, per provare ad anticipare cosa proveremo e anche per riuscire a incastrarle in una specifica categoria commerciale.
Visto che poi arriva una Nintendo e ti fa capire che nessun videogioco è per sempre. Nemmeno Super Mario Bros.