Chi fa videogiochi in Italia non riesce a catturare l’attenzione dei videogiocatori italiani.
L’indagine che Censis ha realizzato per conto di IIDEA, associazione di categoria che rappresenta editori e sviluppatori, ha sottolineato che i 160 sviluppatori di videogiochi italiani hanno fatturato nel 2020 (un anno record per il consumo di videogiochi in Italia) 90 milioni di euro, di cui il 94% dall’estero. Ho approfondito il tema su DDAY.
È normale che una quota molto alta del fatturato delle aziende videoludiche arrivi dall’estero: questo mercato è più internazionale di quello cinematografico o letterario. Meno normale, però, che soltanto 6 milioni di euro dei 1,8 miliardi di euro spesi dalle persone nel 2020 in Italia per il software di videogiochi siano andati nelle tasche delle aziende italiane.
Non per banale nazionalismo; ma perché dà un ulteriore elemento per credere che il pubblico generalizzato non abbia idea che esistano videogiochi italiani là fuori.
Ci sono varie cause: i titoli in inglese; la difficoltà a comunicare i videogiochi italiani a chi non conosce i videogiochi; il fatto che tanti di questi giochi nei negozi non arrivino perché escono solo in digitale, etc.
Resta, però, questa fotografia, fondamentale per stabilire un discorso ampio sui videogiochi in Italia e non soltanto gonfiare il petto con numeri che poi non vogliono dire granché rispetto allo stato del settore italiano.
Matteo Lupetti, che scrive articoli di critica videoludica su varie testate, ha riassunto molto bene ciò che intendo dire rispondendo al mio post su Facebook. Un estratto: “[…] Ma d’altra parte l’alternativa è un globale “produci statunitense consuma statunitense,” cioè l’idea che in Italia non esista una naturale tendenza a preferire la produzione culturale italiana (e son d’accordo che non esiste) è dovuto anche al fatto che anche se la produzione videoludica italiana e in generale europea ha caratteristiche proprie (che ho discusso su Eurogamer) il gusto dellǝ consumatorǝ è globalizzato/statunitensizzato.“