Un editoriale scritto su Spaziogames da Domenico Musicò mi ha fatto riflettere. Prima di passare alle riflessioni mie, mi sembra il caso di riassumere brevemente – mi scuserà il suo autore per la sintesi, magari ruvida – i concetti che ha espresso Musicò. (Piccola parentesi: lo chiamo editoriale per semplicità, ma è definito come “Spaziogames Originals”. Però di fatto è un editoriale.)
L’articolo – intitolato “Giochi incompleti al lancio: fiducia sfumata, pazienza finita” e che vi invito a leggere – basa il suo discorso sui lanci recenti di giochi come Redfall e Star Wars Jedi: Survivor.
Il primo perché è uscito disattendendo le aspettative; il secondo perché su PC aveva grossi problemi tecnici (in maniera molto simile all’edizione per PC di The Last of Us: Parte 1).
L’idea che vuole trasmettere Musicò è che le aziende fanno il loro gioco; ma alla fine sono gli utenti che pre-ordinano o che acquistano al lancio un prodotto prima ancora che si sappia effettivamente se quest’ultimo è buono o no. (Sul tema delle recensioni e sul modo in cui vengono scritte prima di un lancio, rimando all’editoriale della scorsa settimana.)
“Si può dare la colpa al marketing ingannevole ed esageratamente pompato, alle promesse puntualmente disattese, all’avidità delle aziende. Ma perché per una volta non incolpate anche voi stessi, che fate sì che queste pratiche continuino ad andare avanti impunite mentre vi fate travolgere dalla febbre dell’hype? Perché il giocatore non si ferma un attimo a pensare che senza i suoi soldi le grandi aziende saranno costrette a fermarsi e a rivedere certi modelli di produzione che conducono a pratiche poco corrette e non trasparenti?”, si chiede Musicò, a un certo punto, rivolgendosi al pubblico.
Insomma: è colpa dei videogiocatori, innanzitutto, che cedono facilmente di fronte all’hype come mele che cadono dall’albero per colpa della gravità. Ed è colpa di chi sviluppa i videogiochi e cede al mercato e alle macchinazioni del marketing, anche quando sono antitetiche rispetto a un lavoro fatto bene.
In tutto questo, c’è un solido fondo di verità: le dinamiche del lancio di tanti prodotti oggi esasperano un mercato che rincorre le tendenze, i budget enormi e le aspettative a volte disallineate rispetto al valore di un’esperienza.
Ma piuttosto che un comportamento vile o poco trasparente – che in tanti casi c’è – da parte delle aziende, spesso chi sviluppa videogiochi è a sua volta vittima di un sistema dove esiste una finestra di pochi giorni per dare visibilità al tuo prodotto prima di essere schiacciato dal prossimo gioco in uscita che calamiterà su di sé tutta l’attenzione.
La cosa, però, che soprattutto mi ha lasciato un po’ stordito di questo editoriale è che tralascia del tutto il ruolo della stampa e il modo in cui il lavoro della stampa specializzata plasma la percezione dei videogiochi e le informazioni che vengono fornite.
Ai pre-ordini che Musicò critica, per esempio, viene dato ampio spazio sulle testate specializzate. Tutte, nessuna esclusa: i bonus, i vantaggi, i tempi, i costi. Magari anche con un link di affiliazione.
Quindi, è colpa degli editori, degli sviluppatori e dei lettori; ma non è colpa della stampa. Anzi: l’editoriale lascia intendere che la stampa offra tutte le informazioni del caso, puntuali e indipendenti; e che, quindi, sia solo colpa di chi proprio non le vuole recepire queste informazioni.
Ho letto con interesse l’editoriale di Musicò. Intanto perché penso che ci sia più bisogno di testate specializzate in videogiochi che prendono posizioni, persino poco popolari, rispetto a questo tema o a qualunque altro.
Ma mi permetto anche di non essere d’accordo in molti punti: per esempio, in tutti quelli in cui la stampa specializzata viene unicamente descritta come paladina della verità indipendente e virtuosa, bistrattata, però, dagli utenti vogliosi solo del prossimo prodotto da consumare.
Intanto, perché la stampa specializzata vive del marketing delle aziende di videogiochi. Vive delle sue anteprime, dei suoi provati; dei viaggi stampa pagati dalle aziende; dei codici concessi in anteprima per poter uscire all’embargo; delle pubblicità che quelle stesse aziende fanno sui portali specializzati.
Insomma: la stampa non può essere paladina indipendente fintanto che il sostentamento – e il suo stesso lavoro – dipende in buona parte dalle aziende che è chiamata, a vario modo e a vario titolo, a giudicare.
Poi. Musicò parla di aziende che rincorrono i volumi, scrivendo: “Abbiamo visto come talvolta ci sia addirittura uno scollamento totale tra capi d’azienda e sviluppatori, con questi ultimi che sono spesso delle vittime sacrificali tanto quanto i giocatori. Vengono richieste loro delle tempistiche impossibili da rispettare, vengono imposte delle scadenze che non corrispondono a quelle necessarie per il completamento di un’opera con tutti i crismi, e in ultima battuta si fa il possibile per portare a casa capra e cavoli nonostante ritmi folli e richieste insensate.”
A me questa descrizione suona molto familiare: ed è il modo in cui lavorano tante redazioni di videogiochi.
Nel momento in cui Musicò evidenzia che le società di videogiochi rincorrono i profitti – “D’altra parte ci sono i bilanci aziendali che incombono, no? C’è la chiusura dell’anno fiscale e bisogna sbrigarsi, bisogna uscire per forza, giusto?” – sta tralasciando, forse volutamente o forse no, che la rincorsa al volume, convertito in clic e in visualizzazioni e in interazioni sui social, è la stessa gara a cui ogni giorno partecipano tutti i siti di informazione.
Io non ho niente contro questo editoriale. Ma mi sembra anche molto facile togliere dall’equazione del gioco dell’hype – della cultura dell’hype – la stampa specializzata, fingendo che invece quest’ultima sia ideale, funzioni bene, lavori con dignità e che “dall’alto” non vengano calate aspettative di visualizzazioni, di commenti, di interazioni sui social. In altre parole, che anche per chi scrive ci siano aspettative quantitative prima ancora che qualitative.
La triste verità è che questo settore, come tanti altri, si basa sull’eccitazione, sull’esaltazione di qualunque cosa si muova: nel tempo, e ancora oggi, si è abituato il pubblico che è il modo in cui si deve parlare di videogiochi. Un’eccitazione crescente che raggiunge un metaforico orgasmo con l’uscita del prodotto. Con le “bombe”, con i titoli incredibili che sfociano spesso nel clickbait; con le anteprime gridate dopo mezzo trailer e con i provati che dicono tutto e dicono niente (sempre in base al materiale fornito dalle aziende).
Con questa mia riflessione – che vuole ampliare la discussione e non soffocare l’opinione di Musicò – non voglio far passare l’idea che invece sia tutta colpa della stampa; che le aziende fanno quello che possono, poverine, e non vanno criticate più di tanto.
Molto di quello che ha scritto Musicò è vero: la rincorsa al profitto, la poca trasparenza, l’eccessiva spinta al consumo, l’esigenza di soddisfare gli azionisti prima ancora che il pubblico.
Mi preoccupa un po’, però, tutto quello che ha tralasciato.
Ho l’impressione, per chiudere, che l’editoriale di Spaziogames lasci intendere che la stampa specializzata più di così non può fare: e che perciò, i problemi sono da imputare ad altri soggetti chiamati in causa, come sviluppatori, editori o lettori, appunto.
Invece, io credo che ci sia ancora tantissimo che innanzitutto la stampa deve correggere di se stessa e del modo in cui lavora. Poi, si potrà puntare il dito altrove. Forse.