Quando si deve promuovere la necessità di supportare i videogiochi a livello istituzionale, attraverso fondi dedicati o maggiore supporto, anche fiscale, alle iniziative legate ai videogiochi, si fa riferimento, per esempio, al loro impatto sul PIL o sul numero di persone occupate in Italia.
Si parla, cioè, di come il videogioco sia un’industria florida, anche nei vicini Paesi europei, e di come può contribuire allo sviluppo economico complessivo dell’Italia. In altre parole: si parla di soldi, di fatturati.
Una retorica legittima e comprensibile. D’altronde, paghiamo ciò a cui diamo valore; quindi, se i videogiochi generano molti soldi, allora è perché hanno molto valore. È una misura facilmente comprensibile da chiunque, soprattutto dai governi e dalle istituzioni, che hanno molto spesso scarsa familiarità con il settore.
Una retorica che però può eludere, di proposito o meno, altri aspetti del videogioco in qualità di potenziale opera d’arte e culturale e che possono – anzi: dovrebbero – essere tenuti da conto.
Perché in mezzo a tanti giochi che vengono lanciati sul mercato ce ne sono altrettanti che non sono finalizzati al commercio – o almeno non specificamente: cioè non nascono con l’obiettivo di esaudire una domanda commerciale – ma che meritano allo stesso modo di essere incentivati.
Anzi: un contesto di sperimentazione, anche culturale e artistica, è auspicabile.
In un articolo scritto sul The Guardian (intitolato: “Finalmente, l’Australia capisce che i videogiochi sono importanti – ma non può essere solo perché fanno soldi”), Brendan Keogh parla del settore dei videogiochi in Australia, ma ci ho trovato tante somiglianze con il modo in cui parliamo del videogioco in Italia.
“Proprio come i musicisti, i pittori, gli scrittori e tutti gli altri artisti, gli sviluppatori di videogiochi sviluppano una pratica attraverso la costante sperimentazione, con solo alcuni progetti che si evolvono fino a diventare qualcosa che il pubblico di massa vedrà per davvero”, scrive Keogh.
“Non ci sarebbe nessun Mars First Logistics, nessun Untitled Goose Game, nessun Unpacking (giochi realizzati da studi australiani, ndr), se prima non ci fosse stato un grande balzo di lavoro creativo non pagato, imprevedibile e apparentemente ‘non produttivo’ . E la sfida ora, per i governi e le istituzioni culturali che vogliono far crescere l’industria australiana dei videogiochi, sarà il modo in cui verrà supportato quel lavoro perché intrinsecamente importante – come arte”.