Abbiamo un problema. O almeno, l’industria dei videogiochi ne ha uno. Un problema così radicato nel modo in cui i videogiochi vengono realizzati, perlomeno dalle aziende più grandi, che è vecchio quanto il videogioco stesso: ancora oggi tante persone vengono tenute fuori dai riconoscimenti finali; da quella lunga lista di nomi e cognomi e ruoli che mette in luce chi ha lavorato affinché un videogioco avesse luogo.
Non si tratta di un problema da poco perché riguarda il modo in cui il lavoro viene considerato e il valore che viene dato a quel lavoro. Ma ovviamente è anche un aspetto che ha profonde ripercussioni sulla vita professionale di chi non viene giustamente e adeguatamente riconosciuto. E se in rari casi si può dibattere sull’inclusione o meno di un nome o di un altro, spesso le aziende lo fanno per ritorsione o potere.
I riconoscimenti di Metroid Prime Remastered
La situazione è ritornata a far parlare di sé nei giorni scorsi perché nei riconoscimenti di Metroid Prime Remastered non ci sono i nomi di tutte le persone che hanno lavorato alle versioni GameCube e Wii, su cui ovviamente il gioco è basato.
Nei titoli di coda, invece, c’è un generico riconoscimento che dice che Metroid Prime Remastered è “basato sul lavoro dello staff di Metroid Prime (l’originale per GameCube e la versione per Wii)”.
Ovviamente, chi ci ha lavorato a quelle due versioni non ha mancato di far notare quanto stoni quella frase, che banalizza – anzi, riduce al niente – il lavoro che tante persone hanno fatto.
Perché una rimasterizzazione (o remake: c’è un certo dibattito rispetto a come considerare Metroid Prime Remastered) di un videogioco non è come un remake di un film, che prende nuovi attori e attrici, gira nuove scene, cambia ambientazioni, a volte persino pezzi di storia che viene riscritta da altre persone: per i videogiochi l’opera originale continua a essere fortissimamente presente nella versione moderna.
“Questo è assurdo”, ha detto Jack Matthews, che ha lavorato come ingegnere tecnico capo per Metroid Prime 1 e 2 e ha ricoperto un ruolo simile anche in Metroid Prime 3 quando era in Retro Studios. “Non solo per il mio riconoscimento (anche se la maggior parte del codice è stata probabilmente sostituita), ma per tutte quelle persone il cui codice e lavoro è rimasto largamente invariato, come Mark HH, Steve McCrea, tutta la parte artistica e i concept, il game design. Vergognoso”.
Quanto accaduto attorno a Metroid Prime Remastered, in ogni caso, è soltanto l’esempio più recente di un rapporto complicato con il riconoscimento del lavoro.
Per esempio, circa venti persone non sono state inserite nei titoli di coda di The Callisto Protocol di Striking Distance, ha riportato GamesIndustry. Il problema in quel caso è precisamente politico. Alcune persone se ne sono andate prima che lo sviluppo sia stato completato e il gioco pubblicato; così, come precisa ritorsione non sono state inserite nei riconoscimenti.
Ciò è ancora più incredibile considerato che per chiudere i lavori su The Callisto Protocol le persone hanno dovuto fare gli straordinari. Nonostante ciò, alcune sono rimaste fuori.
Per molto tempo anche la politica aziendale di Rockstar Games, i cui giochi richiedono molti anni di sviluppo, è stata di non riconoscere il lavoro delle persone se quest’ultime se ne erano andate prima che il gioco fosse finito.
Senza dimenticare i tanti casi in cui, per esempio, i traduttori freelance non solo non vengono riconosciuti nei titoli di coda, ma non possono nemmeno citare il gioco nel loro curriculum vitae.
Se ne parla dal 1979: la storia di Atari
La situazione non è legata a sviluppi recenti dell’industria dei videogiochi, ma è storica.
Al punto che il primo easter egg, quello inserito da Warren Robinett di Atari in Adventure, videogioco del 1979, serviva proprio a mostrare il suo nome su schermo.
Al tempo Atari stava cambiando. Nel 1976 il co-fondatore, Nolan Bushnell, l’aveva venduta a Warner Bros. La nuova dirigenza, rappresentata dall’amministratore delegato Ray Kassar, cambiò molte cose e, fra le altre, tenne una politica meno amichevole rispetto a Bushnell: i programmatori erano sostituibili; erano ingranaggi che poco potevano pretendere e come tali andavano trattati.
Il che, peraltro, suona ancora più incredibile considerato che in quel periodo letteralmente i videogiochi venivano realizzati da una sola persona, con al massimo qualche contributo dal lato artistico o di marketing.
La politica aziendale però era chiara: Atari non riconosceva il lavoro del programmatore; il suo nome non doveva apparire.
Per cui, la scelta di Robinett fu uno spartiacque: una persona scelse di aggirare il codice per mostrare ai giocatori più arditi chi c’era dietro all’esperienza che si trovavano sullo schermo.
La cosa fu doppiamente furba perché l’easter egg era ovviamente nascosto e perciò venne scoperto quando ormai centinaia di copie fisiche del gioco erano nei negozi ed erano state acquistate. Parliamo di tanto tempo fa: riprenderle e modificarle era impensabile.
L’intervento di Robinett però non aiutò a cambiare la politica di Atari, nonostante il problema fosse molto sentito. Non a caso, società nate da ex dipendenti di Atari, come Activision e Imagic, vantavano il nome dei programmatori sulle copertine dei videogiochi. Invece Atari continuava a non farlo.
“Era un gioco di potere per evitare che i game designer ottenessero il riconoscimento e quindi [avessero] più potere in fase di negoziazione”, ha detto Robinett durante un’intervista.
Il nome che doveva infilarsi nella testa delle persone era quello di Atari; non quello di Warren Robinett o di Howard Scott Warshaw, che prima di creare lo sfortunato E.T. – ancora oggi ritenuto il peggior videogioco della storia del settore – lavorò a due grandi successi per Atari 2600, cioè Yars’ Revenge e Raiders of the Lost Ark (basato sull’omonimo film di Steven Spielberg).
In Yars’ Revenge, per esempio, a un certo punto e in certe condizioni appare “HSWWSH”. Le iniziali di Howard Scott Warshaw, lette da una parte e dall’altra.
Per i riconoscimenti nei videogiochi ogni azienda fa da sé
Oltre quarant’anni dopo, il problema rimane lo stesso. In mancanza di un esplicito riconoscimento, viene impattata la carriera delle persone. Si tratta di non poter provare di aver lavorato, anche per tanto tempo, a un videogioco con evidenti ripercussioni sulle possibilità di presentarsi a un’altra azienda con un certo storico professionale. Aver lavorato o meno a produzioni riconosciute può fare la differenza fra avere un nuovo lavoro o non averlo.
Le linee guida della International Game Developers Association (IGDA) suggeriscono che nel caso delle riedizioni che “includano una parte o interamente il lavoro originale”, tutte le persone che hanno lavorato all’originale “dovrebbero essere riconosciute prima dei nuovi riconoscimenti legati all’adattamento o alla riedizione, poiché il lavoro che è stato acquistato dal consumatore è fondamentalmente il contenuto originale” negli aspetti principali.
Più in generale, le persone che hanno contribuito per meno del 5% del tempo totale di sviluppo o per al massimo 30 giorni dovrebbero comunque essere riconosciute in una sezione di “ringraziamenti speciali”.
Però le linee guida della IGDA sono facoltative; quindi, alla fine le aziende si muovono singolarmente.
Si tratta di un problema storico, sistemico e strutturale. Si tratta di bilanciare il rapporto fra chi lavora e chi il lavoro lo organizza ed è anche per ragioni come queste che in varie società di videogiochi stanno nascendo dei sindacati: per negoziare condizioni lavorative migliori.
La situazione però è molto acerba: i sindacati rimangono pochissimi rispetto alla totalità delle aziende attive e spesso riguardano uno specifico reparto dell’azienda, come quelli di controllo qualità, il che rende difficile organizzare condizioni generalmente migliori per tutti.
Così ancora oggi, come nel 1979, bisogna passare per vie traverse per farsi riconoscere il lavoro svolto e non rischiare di essere lasciati indietro.