Oggi intervisto un’altra persona che scrive dei videogiochi, ma lo fa sulla stampa generalista: Alessandra Contin, firma di Italian Tech, hub di tecnologia del gruppo GEDI. Potete seguire Alessandra su Facebook.
Massimiliano: Parlare di videogiochi sulla stampa generalista implica due cose: rivolgersi a persone che o sanno poco di videogiochi o non ne sanno niente; e scontrarsi con dei pregiudizi che spesso sono anche interni alla testata stessa. In considerazione di ciò, come lavori per scegliere gli argomenti e l’approccio?
Alessandra Contin: Negli anni il mio lavoro è cambiato tantissimo. Ho cercato di trovare una linea e di non occuparmi del videogiochi tout court, ma della cultura del videogioco. Quando mi sono ritrovata a scrivere sulla generalista, in un inserto che si chiama Tuttolibri ed è un inserto culturale, ho dovuto trovare la giusta chiave di approccio per il pubblico. Ed era un approccio molto narrativo.
Quello che ho fatto negli anni, e spero di averlo fatto bene, è arginare una serie di preconcetti. Se tu cerchi di insegnare al tuo pubblico, che magari è a digiuno dell’argomento, che non si parla solo di violenza, ma anche di mercato, perché c’è un livello finanziario, o di cultura o comunque un aspetto più serio, allora lo porti a quello che vuoi ottenere.
Io ho sempre cercato di raccontare il videogioco in tutte le sue sfumature.
Devi considerare che un quotidiano è fatto di vari capipagina e tutti possono occuparsi più o meno di tutto: non si consultano prima. I titoli scandalistici ci saranno sempre: se una persona che lavora nella sezione di cronaca ha deciso di impostare l’articolo così, ci puoi fare molto poco. Tu puoi raccontare al tuo pubblico e in modo costante cosa sono i videogiochi e devi farlo in maniera rigorosa: quando parli di violenza o di gaming disorder devi dare voce a tutto. Porti degli psichiatri che sono contrari e altri che sono favorevoli e porti dati oggettivi.
Si parla spesso dei limiti della stampa generalista, ma quali sono invece i vantaggi?
Se lavori per un gruppo come quello per cui lavoro io, arrivi in home page su quotidiani nazionali o locali e quindi a un pubblico vastissimo. Anche per questo non puoi prendere le cose alla leggera.
Nella generalista ci sono brave penne: [Fabrizia] Malgieri su Corriere, [Paolo] Cupola sulla Gazzetta. E fra l’altro, moltissime di queste persone hanno un percorso nella specializzata. Ormai, soprattutto negli ultimi dieci anni, chi sta nella generalista ha avuto o ha ancora un piede nella specializzata. Io ho lavorato tanti anni per PlayStation Magazine Ufficiale.
Pensare che questa gente solo perché usa un linguaggio meno specifico e meno tecnico non sia in grado di parlare è sbagliato: significa che sta parlando a un pubblico più ampio.
Ulteriore esempio di un approccio della base più radicale: se allarghi il pubblico, mi dai fastidio.
Sì, perché è una setta fatta da fan boy. Basta vedere cosa è successo nell’ultimo periodo con le varie acquisizioni. Se guardi, sembrano tifoserie e non persone che analizzano, riferendomi ai fan boy, un movimento fortissimo nel videogioco. Queste acquisizioni così pesanti stanno ridisegnando il videogioco del futuro. Dicono “ah, ma questo titolo sarà in esclusiva”, quando il discorso è un altro.
Anche nella specializzata, comunque, ci sono penne enormi, di una bravura potente e che leggo.
Io credo che l’ambizione di chiunque abbia in comune la passione per la scrittura e quella per il videogioco debba essere quella di arrivare sulla generalista perché si punta a farsi sentire dal maggior pubblico possibile, anche per aumentare la consapevolezza e contribuire allo sviluppo del settore italiano.
Io ci scrivo da 23 anni. La percezione sul videogioco, al di là di quanto si possa pensare, è cambiata. Da quando è nato Italian Tech sto cercando di cambiare la mia scrittura. Mi sto interessando sempre meno ai singoli giochi e sempre di più a costruire una narrazione su determinati argomenti.
In quest’ultimo anno sto lavorando tantissimo sugli sviluppatori italiani, anche per dare una misura delle dimensioni in crescita, e sull’aspetto culturale. La narrazione però dev’essere accessibile per un pubblico vasto: non è facile. Sto tentando di intervistarli in maniera scritta con domande puramente puntuali e utilizzare unicamente le loro risposte per costruire una storia. Secondo me, un pubblico della generalista è più propenso a leggere una storia anziché un videogioco.
Se vogliamo quello è sempre stato il taglio della stampa generalista. Penso alla scienza o in generale agli argomenti specifici facendo leva sulla curiosità, che sì tante persone hanno.
Sto cercando di fare un passo ulteriore alla divulgazione confezionando una storia che sia avvincente, inserendo anche cose tecniche e inerenti all’argomento videogioco. Così, in qualche modo, riusciamo ad aprire la mente.
Trovare delle chiavi per avvicinare le persone non è facile. In Italia il gioco, in generale, non è visto bene: è una perdita di tempo e si attribuisce al gioco qualità molto infantili e questo va scardinato.
Per anni, anche prima che il videogioco italiano crescesse, hai parlato di videogiochi italiani. Com’è cambiato il tuo modo di raccontarli?
Fino a 5-6 anni fa era persino difficile trovarli, i giochi italiani. E oggi gli studi di sviluppo sanno comunicare meglio, quindi è più facile approcciarli. Ci sono manifestazioni, come la Games Week, dove hai un’area tutta italiana da cui scegliere cosa possa andare bene.
Un’altra cosa è che in questo momento in cui c’è una grande fame di videogiochi è più facile dare una dimensione al videogioco italiano. Ci sono stati studi acquistati da grandi realtà internazionali e sono argomenti che sulla generalista trovano facilmente spazio. E da lì puoi parlare più in generale di cosa stia succedendo in Italia.
Lo scorso novembre, proprio sulla Stampa, è uscita un’intervista a Claudia Molinari che poi su Instagram è stata riportata in modo superficiale e ha generato, purtroppo, attacchi alla sua persona. In questi casi, il social media manager si interfaccia con chi ha scritto l’articolo?
Quando è successo a Claudia, la prima cosa che ho fatto è telefonare in redazione e alla giornalista, che è una brava giornalista, dicendo “ragazzi, almeno un po’ di moderazione sui commenti ci vorrebbe”. È ciò che ho potuto fare io.
Detto ciò, io non avrei cambiato mezza virgola della citazione, magari non avrei messo le virgolette. La descrizione, che era lunghissima, chiariva cosa c’era scritto nel virgolettato. In ogni caso, a me ha sconvolto, e avrei voluto intervenire, la reazione. Cosa puoi dire a queste persone? Puoi anche moderarle, ma cosa ricavi? La maggior parte delle persone riportavano 4 giochi e non si accorgevano che quei giochi, come The Last of Us Parte 2, quando sono usciti hanno portato dietro quelle stesse polemiche.
L’unica cosa che posso dire di quella situazione è che ci vorrebbe più moderazione.
Poi tende sempre a commentare chi ha un’opinione molto forte e non è rappresentativo…
Sono opinioni da bimbominchia. Se tu, da utente, non ti rendi conto di come sta cambiando l’universo circostante, non è una moderazione a farti cambiare idea.
Di recente, hai scritto di quali videogiochi porteresti nel tuo museo preferito. E ciò tocca lateralmente il tema della preservazione dei videogiochi, anche per via della protezione della proprietà intellettuali delle aziende. Come lo risolviamo? Il tema è sempre più impellente.
Per un museo è abbastanza semplice quando decide di farlo: non avrà problemi a ottenere le licenze e non avrà problemi a fare percorsi ragionati.
Mi fai una domanda che sfora tanto nella preservazione dell’arte moderna e digitale. Alcune cose le possiamo preservare, mentre dobbiamo metterci in testa che altre saranno abbandonate. Semmai dobbiamo iniziare a chiederci cosa meriti di essere preservato e far persino parte di un’esposizione museale.
Fa impressione che un’istituzione come l’Archivio Videoludico adesso non sia più nella Cineteca di Bologna, ma venga trasferito. Questo è grave, però siamo anche in un periodo relativamente recente. Il videogioco è recente. Prima di avere dei seri percorsi museali ci vorrà ancora tempo.
Sulla base di quali criteri scegli di cosa parlare e chi intervistare? Hai una tua “agenda”, intesa come un percorso divulgativo che vuoi affrontare per raccontare come la tecnologia o il mercato, per esempio, stanno plasmando i videogiochi?
In base a ciò che mi piace e colpisce il mio interesse. Di recente ho visto un videogioco che, per tutta una serie di riferimenti puntuali, mi ha colpito moltissimo perché la cultura pop giapponese veniva esaltata e mi piacevano i riferimenti sia folkloristici sia quelli pop-culturali che sono stati inseriti. Così poi chiedi ai PR italiani o internazionali per avere un’intervista e approfondire certi aspetti e da lì si fa avanti.
Dipende tutto da cosa mi colpisce.
A me di parlare dell’ultimo sparatutto, anche se ha un gameplay fantastico, non interessa. Lo gioco, eh: io mi scasso di Destiny dopo otto anni, non ho preconcetti. A parte coi giochi di guida, che proprio non sono il mio genere. Ma io non guardo neanche i film d’amore, per cui.
Cerco storie. Se vedo delle storie interessanti, cerco di capire chi l’ha messa su e approfondisco. Il prossimo articolo che uscirà è di un’azienda italiana che fa giocattoli intelligenti e ha fatto questo tabellone esperienziale con un gioco di tavolo ed è una bella storia. Loro stanno a Rapallo. La Liguria ha dato all’industria italiana persone di altissimo livello. Questi non si sono mai spostati dalla Liguria: è una bella storia. Guardo ormai questi aspetti e valuto se un particolare è degno di essere raccontato in maniera più ampia.
Diciamo tanto che i giochi sono sensibilità e storie e se poi queste storie che ci sono dietro lo sviluppo non le raccontiamo…
Sì, sì. Quello che a me salta all’occhio sono cose che sembrano minime, ma poi, quando scavi, sono enormi. C’è sempre un grande lavoro. L’ultimo Horizon, per esempio, lo puoi giocare come un gioco carino e semplice, ma secondo me, essendo loro [Guerrilla Games] europei si sono letti dei bei testi di antropologia culturale per tutta una serie di motivi.
Quando gioco a me vengono in mente queste cose: poi cerco di indagare se sto prendendo una cantonata o no. E se tutto un gioco ha quel tipo di piano culturale, allora vale la pena di approfondire.
Secondo te, oggi in Italia manca qualcosa nel racconto del videogioco?
Secondo me no, ormai siamo talmente tanti e talmente diversi e ognuno ha una sua chiave per raccontarlo. È solo la curiosità dell’utente, del lettore trovare il suo modo di voler sentire il videogioco. In Italia c’è gente come Federico Ercole, che scrive sul Manifesto; Stefania Sperandio; [Francesco] Serino; [Francesco] Fossetti.
Sono talmente diversi come approcci e linguaggi, che poi trovare pezzi di critica videoludica seri, lunghi. In Italia c’è [Matteo] Lupetti. È talmente variegata. Ci sono tante penne molto brave che magari a te non piacciono, ma portano avanti una precisa visione. Ormai non si può più trattare in maniera tecnica e asettica, come si faceva una volta sulle riviste specializzate; e questa gente lo sta facendo con grande capacità.