Ho avuto il piacere di parlare con Lorena Rao (che ha firmato e firma articoli per Stay Nerd, Fanpage e Badtaste) di videogiochi, stampa e rapporto con i lettori. La chiacchierata si è spostata a parlare di emozioni e di come i videogiochi le suscitano.
Ne è uscita un’intervista molto interessante: Lorena ha tante cose da dire e tutte interessanti e io ne ho estratte soltanto una briciola. Puoi seguire Lorena su Facebook e su Instagram.
Massimiliano: Quando parliamo del rapporto disordinato che si è creato fra stampa e giocatori, tendiamo a puntare il dito verso le abitudini dei lettori e le dinamiche dei social network. Come stampa che errori facciamo?
Lorena: La situazione è complessa. Lato stampa, anche noi abbiamo una responsabilità. Non ti saprei dire da quando è iniziato, ma il tipo di narrazione usato da un po’ di tempo dalla stampa è fuorviante. Ritengo anche che nell’ultimo periodo la stampa sia migliorata.
Il problema con gli utenti è legato, secondo me, a un tipo di narrazione che punta sull’hype, a formare aspettative; quindi, quando il gioco non rispetta le aspettative, apriti cielo. Lo stesso vale per le questioni legate ai dibattiti sociali, al genere o all’inclusività. È una narrazione finalizzata a suscitare un sentimento di “pancia”.
Recentemente, un collettivo di sviluppatori e sviluppatrici ha chiesto a Rockstar Games di rimuovere dei contenuti transfobici nella prossima edizione di GTA 5. È stato riportato dalla stampa italiana come l’ennesimo urlo delle minoranze che non accettano la maggioranza. Andando ad approfondire gli aspetti collegati a questa notizia, in primis la lettera aperta e poi l’articolo di Kotaku che spiega le rappresentazioni fuorvianti in GTA 5, diventa chiaro che il discorso è molto più strutturato e si rifà a un gioco uscito originariamente nel 2013. La nuova edizione uscirà nel 2022 e viene chiesta l’accortezza di una modifica dei contenuti che di base sono stereotipati.
Se una notizia così viene banalizzata, allora crei la polemichetta.
Ci vorrebbe un’informazione più strutturata perché parliamo di temi importanti e che hanno ripercussioni nella società in cui viviamo.
Io penso però che, nonostante questi errori, la stampa stia migliorando. Noto sempre più spesso la presenza di persone esterne alla stampa, che magari fanno parte del mondo accademico o dello sviluppo, e che garantiscono una visione più allargata e approfondita del medium. A poco a poco questo tipo di informazione, che per ora è una nicchia, potrebbe rappresentare il passo successivo per unire lettori e giornalisti.
Parliamo di un medium che sta maturando sempre di più. Il nostro compito è far capire la valenza di questa evoluzione.
Possiamo tracciare la spaccatura fra stampa e lettori nel momento in cui gli utenti hanno potuto parlare in prima persona, i primi anni di YouTube e il passaggio alle riviste online con la sezione commenti; in cui insomma la voce non è stata più solo quella dei giornalisti?
Assolutamente sì. La critica e l’informazione non sono più monopolio della stampa. Al di là degli influencer, chiunque si può aprire un canale YouTube e dire la propria, creare una sua comunità e creare una coralità di voci che va a impattare sul dibattito attuale. Il ruolo dello youtuber, dello streamer, dell’influencer va ad affiancarsi a quello del giornalista; però sono linguaggi diversi.
Mentre le realtà editoriali seguono delle linee editoriali, lo youtuber o lo streamer gioca più sulla personalità e i propri gusti. È interessante anche questo. Sto notando come venga dato valore ala soggettività. Riguardo alla critica, infatti, torna sempre la domanda: conta l’oggettività o la soggettività di chi ha provato il gioco?
Credo che chi fa intrattenimento e divulgazione sul web stia dando spazio alla soggettività, mentre prima, nelle redazioni delle riviste cartacee, le recensioni dei singoli redattori racchiudevano il caposaldo che era poi l’opinione della visione editoriale della rivista. Ora noto come questa soggettività stia venendo inglobata anche dalle redazioni e in questo hanno giocato un ruolo importante le personalità del web.
Nella scorsa puntata della newsletter, ho aperto affermando che mi piacerebbe vedere usata di più la prima persona singolare nelle recensioni e nelle analisi. Come la vedi?
Dipende. Nel caso della recensione mi trovo in difficoltà a usare la prima persona singolare perché sento lo strascico della tradizione italiana. Negli approfondimenti ho sperimentato con la prima persona singolare perché magari voglio risaltare un elemento del gioco che per me specificamente è stato importante.
Al di là dell’influenza del web, è un modo di fare diffuso nel mondo anglosassone. Ancora mi stupisco leggendo le notizie su Kotaku come la loro retorica sia molto informale, spesso infarcita anche di parolacce. Però vedo che funziona.
Se ci fai caso, quando si compravano le riviste di carta, poi si chiacchierava con gli amici. Questa formula, che premia la soggettività, si rifà ai momenti nostalgici in cui ci si confrontava con gli amici. Essendo il videogioco un’esperienza interattiva che esalta il rapporto personale che si crea fra chi gioca e l’alter ego, secondo me è importante far emergere la soggettività di chi gioca e di chi scrive. In Italia effettivamente sta prendendo piede. A me non dispiace.
Il videogioco di per sé è incompleto finché non viene aggiunto il giocatore. Escludere la soggettività, impedisce un’analisi completa.
Assolutamente, concordo. Nel suo recente libro “Il gene del talento” (451, 2021) Hideo Kojima ha inserito varie cose, come libri, anime e film, che hanno influenzato la sua opera. E si parla anche del rapporto che si crea fra il pubblico e l’opera. Soprattutto con il videogioco, Kojima evidenzia come l’autore non sia l’unico possessore dell’opera: anche la community se ne appropria. Il giocatore vive un’esperienza che si lega alla sua soggettività. Lui parlava di Metal Gear Solid e di come volesse che il terzo capitolo fosse l’ultimo, ma è arrivato al quinto perché la comunità sentiva la necessità di altri giochi.
Allora cosa conta: solo l’autorialità o solo il pubblico, che ha un ruolo attivo all’interno del videogioco come essenza? Io concordo con te.
Con Glitch state sperimentando un racconto crossmediale e, almeno in Italia, nuovo. Com’è nato e come sta andando?
Glitch è nato nel 2020, nel pieno del lockdown da un’idea di Claudio Cugliando e altri ragazzi di Stay Nerd. Io partecipo come contributor: mi occupo della stesura dei testi. È un modo nuovo di parlare del videogioco. Io sono abituata a scrivere, ma è bello mischiare la scrittura alla musica, all’immagine e ai testi per dare una prospettiva diversa. Glitch non si pone come una videorecensione: sono spaccati focalizzati su un dettaglio che ha colpito l’autore o l’autrice del testo.
Piccolo spoiler: ho scritto il testo su Disco Elysium incentrato sul rapporto fra passato, presente e futuro e che in questo gioco crolla del tutto e si rifà alla nostra società, dove abbiamo difficoltà a dividere passato, presente e futuro. È una cosa che ho notato io, ma è bello vedere come chi si occupa del montaggio, chi del voiceover, chi della musica assorbe il mio punto di vista e poi viene fuori un prodotto corale.
L’obiettivo di Glitch è creare hype per la cultura. Cerchiamo di diffondere la valenza del videogioco come espressione culturale, che può essere legata a tanti elementi della realtà in cui viviamo. Io come storica mi piace analizzare che tipo di situazioni vengono fatte, ma sono state fatte valutazioni su altri temi, da Firewatch agli esport.
Alcuni sono aspetti profondamente intimi, come la depressione, che abbiamo affrontato in un video su Celeste. Vogliamo fare vedere le tante sfaccettature del videogioco. In base alla sensibilità di chi gioca, il videogioco può assumere vari significati ed è una caratteristica tipica di questo medium rispetto agli altri.
Recentemente è stato pubblicato “Emozioni da giocare” (Poliniani, 2021), che tu hai co-curato. Innanzitutto, che lavoro c’è dietro a curare una simile raccolta e poi come viene approcciato un libro di cultura videoludica?
Non è stato un lavoro facile. Siamo una squadra di cinque curatori e ci ha permesso di entrare in contatto con figure del medium italiano che si approcciano con punti di vista diversi: streamer, giornaliste, influencer, sviluppatori. Abbiamo preso figure professionali per parlare di aspetti intimi come le emozioni, che sono diverse in base a chi gioca. L’obiettivo principale era far capire il potere del videogioco a livello emotivo.
Contenuti come “Emozioni da giocare” hanno difficoltà ad avere un pubblico vasto perché per tanto tempo si è parlato di videogioco solo come di un prodotto. Ma al di là della grafica, il videogioco che ti ha lasciato? Le emozioni intime, come la tristezza o l’orgoglio o la rabbia. Perché quel videogioco ti ha fatto arrabbiare? Parlare di videogioco in senso intimo è possibile perché le sfaccettature sono tante.
Il lavoro è durato anni perché inizialmente abbiamo avuto difficoltà a trovare un editore, che poi abbiamo trovato in Poliniani con suo grande entusiasmo. Devo dire che anche i vari contributor che abbiamo contattato hanno accettato subito e a me questo ha dato grande felicità e fiducia per il dibattito attorno al videogioco: si sente la necessità di dibatterne in maniera più evoluta. Mi piace pensare che questi siano piccoli passi in più per avere quella profondità di cui parlavamo all’inizio.
Curare una simile raccolta prevede anche instaurare un approccio collaborativo con chi ha contribuito e ha inviato il testo, magari chiedendo integrazioni?
Ci sono stati degli scambi. Proprio perché, nel nostro caso, le emozioni sono le protagoniste principali, volevamo assicurarci che chi scrivesse parlasse di un’emozione a lei cara. Una volta mandata la prima bozza c’era una prima revisione, ma non ci sono state vere e proprie correzioni perché è una cosa molto personale e non ci siamo permessi di dire “questo non puoi, questo sì”. Erano più correzioni a livello formale. Il rapporto che si è generato è stato molto spontaneo.
In questa intervista abbiamo tessuto due fili: la soggettività e l’emozione. Quindi vorrei chiudere con una nota personale. Quali sono gli ultimi giochi che ti hanno emozionato? Ti emozioni ancora per le stesse cose che ti emozionavano anni fa?
È una domanda bellissima. Io mi emoziono quasi sempre quando gioco, altrimenti non giocherei: è la scintilla principale che mi spinge a giocare. Una delle esperienze più forti dell’ultimo periodo è Disco Elysium. In questo gioco sei un poliziotto che si è dimenticato tutto, persino il suo aspetto, e l’unica cosa che può fare è basarsi sulla sua personalità, che sono poi i parametri di un gioco di ruolo (GDR). Io ho basato il mio personaggi su tratti anche molto diversi dai miei, ma mi sono affezionata a un coinvolgimento che non pensavo che avrei provato.
Per tanto tempo ho giocato ai GDR perché mi davano un senso di potenza: tutto quello che incontravo lo potevo risolvere. In Disco Elysium tutto questo crolla e per un motivo: accetto la sconfitta. È una cosa bellissima perché si avvicina al mondo reale. Mi emoziono soprattutto quando il videogioco si avvicina alla vita reale. Un videogioco è fatto da persone reali, che riversano le loro esperienze e le loro emozioni nel videogioco e a me piace godere di questi sottotesti.
Crescendo i giochi che adoravo ora che ho una sensibilità diversa non mi emozionano più. La Legendary Edition di Mass Effect mi ha fatto rimanere male, soprattutto il primo, che era il mio preferito della trilogia: l’ho trovato di una banalità disarmante, oltre a portarsi dietro i suoi anni a livello di giocabilità. Mi ha lasciato triste non aver provato neanche un senso di nostalgia.
Per alcuni giochi ci sono età e momenti giusti: ho grande affetto per Final Fantasy 8, ma riconosco che tra i Final Fantasy è fra i più brutti mai giocati. Credo che non ritrovarsi più nei giochi del proprio passato sia un’esperienza che chiunque giochi debba provare sia per capire com’è cambiato il medium sia per comprendere come sei maturato tu. È qualcosa di profondo e bellissimo.