Scrivere di videogiochi sulla stampa generalista

Stai leggendo Insert Coin: una newsletter con cui racconto i videogiochi, il loro mercato e gli sviluppatori.
Ogni domenica invio una nuova puntata.

Con il contributo di Ilaria Celli, che trovate poco sotto, si conclude la breve interconnessione fra Insert Coin e Still Alive, newsletter che Ilaria scrive insieme con Damiano D’Agostino (il cui contributo puoi invece leggere nella puntata della scorsa settimana).

Puoi leggere il mio contributo al loro lavoro nella puntata più recente di Still Alive, Barriere Virtuali.

Insieme abbiamo appena sfiorato cosa si può raggiungere collaborando e intersecando sensibilità diverse, a volte persino opposte, quando vengono focalizzate su un comune obiettivo: informare su tutto ciò che riguarda il videogioco, dalla sua economia fino all’accessibilità, andando un po’ più in là.

Il debutto di Elden Ring ha dimostrato quanto l’informazione specializzata sia costretta – per i limiti della sostenibilità del settore, legata alla pubblicità e ai clic – a sovrapporre continuamente l’argomento nuovo a quello vecchio, anche quando non ha ancora completato di parlare e di approfondire quello precedente.

Di Horizon: Forbidden West, uscito il 18 febbraio, ci siamo già dimenticati: ora è il turno delle guide di Elden Ring su come affrontare i boss, trovare gli oggetti ed esplorare il mondo (anche se non sapere come farlo, in teoria, è l’esperienza stessa di un gioco come Elden Ring). Aloy non è più in tendenza e si deve passare oltre.

E ciò finisce per non soddisfare l’esigenza primaria: informare, anziché accudire la smania di consumo.

Massimiliano


Come parlare di videogiochi sulla stampa generalista

Oggi intervisto un’altra persona che scrive dei videogiochi, ma lo fa sulla stampa generalista: Alessandra Contin, firma di Italian Tech, hub di tecnologia del gruppo GEDI. Potete seguire Alessandra su Facebook.

Massimiliano: Parlare di videogiochi sulla stampa generalista implica due cose: rivolgersi a persone che o sanno poco di videogiochi o non ne sanno niente; e scontrarsi con dei pregiudizi che spesso sono anche interni alla testata stessa. In considerazione di ciò, come lavori per scegliere gli argomenti e l’approccio?

Alessandra Contin: Negli anni il mio lavoro è cambiato tantissimo. Ho cercato di trovare una linea e di non occuparmi del videogiochi tout court, ma della cultura del videogioco. Quando mi sono ritrovata a scrivere sulla generalista, in un inserto che si chiama Tuttolibri ed è un inserto culturale, ho dovuto trovare la giusta chiave di approccio per il pubblico. Ed era un approccio molto narrativo.

Quello che ho fatto negli anni, e spero di averlo fatto bene, è arginare una serie di preconcetti. Se tu cerchi di insegnare al tuo pubblico, che magari è a digiuno dell’argomento, che non si parla solo di violenza, ma anche di mercato, perché c’è un livello finanziario, o di cultura o comunque un aspetto più serio, allora lo porti a quello che vuoi ottenere.

Io ho sempre cercato di raccontare il videogioco in tutte le sue sfumature.

Devi considerare che un quotidiano è fatto di vari capipagina e tutti possono occuparsi più o meno di tutto: non si consultano prima. I titoli scandalistici ci saranno sempre: se una persona che lavora nella sezione di cronaca ha deciso di impostare l’articolo così, ci puoi fare molto poco. Tu puoi raccontare al tuo pubblico e in modo costante cosa sono i videogiochi e devi farlo in maniera rigorosa: quando parli di violenza o di gaming disorder devi dare voce a tutto. Porti degli psichiatri che sono contrari e altri che sono favorevoli e porti dati oggettivi.

Si parla spesso dei limiti della stampa generalista, ma quali sono invece i vantaggi?

Se lavori per un gruppo come quello per cui lavoro io, arrivi in home page su quotidiani nazionali o locali e quindi a un pubblico vastissimo. Anche per questo non puoi prendere le cose alla leggera.

Nella generalista ci sono brave penne: [Fabrizia] Malgieri su Corriere, [Paolo] Cupola sulla Gazzetta. E fra l’altro, moltissime di queste persone hanno un percorso nella specializzata. Ormai, soprattutto negli ultimi dieci anni, chi sta nella generalista ha avuto o ha ancora un piede nella specializzata. Io ho lavorato tanti anni per PlayStation Magazine Ufficiale.

Pensare che questa gente solo perché usa un linguaggio meno specifico e meno tecnico non sia in grado di parlare è sbagliato: significa che sta parlando a un pubblico più ampio.

Ulteriore esempio di un approccio della base più radicale: se allarghi il pubblico, mi dai fastidio.

Sì, perché è una setta fatta da fan boy. Basta vedere cosa è successo nell’ultimo periodo con le varie acquisizioni. Se guardi, sembrano tifoserie e non persone che analizzano, riferendomi ai fan boy, un movimento fortissimo nel videogioco. Queste acquisizioni così pesanti stanno ridisegnando il videogioco del futuro. Dicono “ah, ma questo titolo sarà in esclusiva”, quando il discorso è un altro.

Anche nella specializzata, comunque, ci sono penne enormi, di una bravura potente e che leggo.

Io credo che l’ambizione di chiunque abbia in comune la passione per la scrittura e quella per il videogioco debba essere quella di arrivare sulla generalista perché si punta a farsi sentire dal maggior pubblico possibile, anche per aumentare la consapevolezza e contribuire allo sviluppo del settore italiano.

Io ci scrivo da 23 anni. La percezione sul videogioco, al di là di quanto si possa pensare, è cambiata. Da quando è nato Italian Tech sto cercando di cambiare la mia scrittura. Mi sto interessando sempre meno ai singoli giochi e sempre di più a costruire una narrazione su determinati argomenti.

In quest’ultimo anno sto lavorando tantissimo sugli sviluppatori italiani, anche per dare una misura delle dimensioni in crescita, e sull’aspetto culturale. La narrazione però dev’essere accessibile per un pubblico vasto: non è facile. Sto tentando di intervistarli in maniera scritta con domande puramente puntuali e utilizzare unicamente le loro risposte per costruire una storia. Secondo me, un pubblico della generalista è più propenso a leggere una storia anziché un videogioco.

Se vogliamo quello è sempre stato il taglio della stampa generalista. Penso alla scienza o in generale agli argomenti specifici facendo leva sulla curiosità, che sì tante persone hanno.

Sto cercando di fare un passo ulteriore alla divulgazione confezionando una storia che sia avvincente, inserendo anche cose tecniche e inerenti all’argomento videogioco. Così, in qualche modo, riusciamo ad aprire la mente.

Trovare delle chiavi per avvicinare le persone non è facile. In Italia il gioco, in generale, non è visto bene: è una perdita di tempo e si attribuisce al gioco qualità molto infantili e questo va scardinato.

Per anni, anche prima che il videogioco italiano crescesse, hai parlato di videogiochi italiani. Com’è cambiato il tuo modo di raccontarli?

Fino a 5-6 anni fa era persino difficile trovarli, i giochi italiani. E oggi gli studi di sviluppo sanno comunicare meglio, quindi è più facile approcciarli. Ci sono manifestazioni, come la Games Week, dove hai un’area tutta italiana da cui scegliere cosa possa andare bene.

Un’altra cosa è che in questo momento in cui c’è una grande fame di videogiochi è più facile dare una dimensione al videogioco italiano. Ci sono stati studi acquistati da grandi realtà internazionali e sono argomenti che sulla generalista trovano facilmente spazio. E da lì puoi parlare più in generale di cosa stia succedendo in Italia.