Il modo in cui parliamo della difficoltà in generale è un modo di fare gatekeeping? Cioè di barricarci nella nostra bolla e difenderla dai potenziali nuovi arrivati?
Me lo sono chiesto ragionando in questi giorni – anche a margine di quanto scritto mercoledì – mentre continuo a giocare a Bloodborne. Gioco che per tanti anni mi sono negato perché “difficile”. Bello, avvincente e misterioso; ma difficile. Anzi, frustrante; che è peggio di difficile.
Ed è un gioco difficile, è vero. Ma lo è fino a un certo punto: se migliori il personaggio, vai avanti sereno; se inizi a dedicartici, vai avanti sereno; se non ti imponi condizioni inutilmente faticose, vai avanti sereno.
Perciò, ho iniziato a domandarmi quanto questa retorica della difficoltà di certi videogiochi – vale per From Software, ma non solo – serva più come medaglia sul petto che come reale metodo descrittivo. Come a dire “questi sono giochi per NOI, non per VOI”.
Magari esagero con il paragone, però ci vedo molte attinenze e quindi procedo.
Pac-Man era difficile. Sfido a trovare, fra le vostre conoscenze, una persona che è arrivata all’ultimo livello, prima che il gioco crashi del tutto. Eppure, le persone si divertivano con Pac-Man; la difficoltà era una parte di quel divertimento e veniva contemplata, era nota. E comunque ci si godeva Pac-Man. Ed è diventato un fenomeno culturale noto persino oggi a tantissime persone: per i suoi colori, per la musica, perché se ne parlava tanto.
Certo, lo so. Altro videogioco, altri tempi, altre modalità di fruizione (cabinati a gettoni, tanto per iniziare): ma ci siamo capiti.
Non voglio sminuire l’impegno che richiedono i giochi di From Software solo perché io, dopo vari tentativi, sono infine riuscito ad azzeccare l’esperienza con uno di questi. Ed è un impegno che a tanti semplicemente non interessa, ed è giusto che sia così.
Ma proprio perché ci sono riuscito a modo mio, e con i miei tempi, ho smontato un po’ delle cose che avevo sentito. E mi è spiaciuto che per tanti anni io non mi sia concesso Bloodborne perché difficile e frustrante – o almeno così dicevano. Alimentando un mostro, non un’esperienza di gioco.
Oltre alla difficoltà c’è tanto altro: c’è il mistero; c’è il fallimento; c’è la paura di ciò che non si conosce; c’è l’evidenza tangibile del proprio miglioramento; c’è il disturbo e il riuscire, poi, a gestire quel disturbo.
E secondo me, sono tutte caratteristiche che meritano di essere esplorate anche – e forse nonostante – se è difficile. Perché comunque valgono pure queste. Solo che nel modo in cui li raccontiamo, questi videogiochi, spesso prevale quasi solo il difficile.
Così, ahimè, Bloodborne o Elden Ring non saranno mai Pac-Man.
Massimiliano
Il lancio di un nuovo videogioco, specialmente se i due precedenti sono stati un successo, è un momento positivo per una società. O almeno dovrebbe.
Perché se ti chiami Hoyoverse, hai già sul mercato due titoli con meccaniche di gioco simili (come Genshin Impact e Honkai Star Rail) e ti approcci con un terzo titolo nel giro di quattro anni che pesca dallo stesso pubblico; allora, in questo caso, ciò che può succedere è che il nuovo videogioco rischi di cannibalizzare quelli già disponibili. Ed è un rischio molto concreto.
Cosa dicono di Zenless Zone Zero
Zenless Zone Zero è il nuovo videogioco di Hoyoverse ed è disponibile dallo scorso 4 luglio su PC, iOS, Android e PlayStation 5. Le prime recensioni ne hanno parlato in maniera positiva.
Per IGN il gioco “crea un mondo inimitabile in cui è facile perdersi”, mentre secondo Destructoid “è piuttosto semplice per una partita e via e per chi gioca in mobilità è certamente il titolo Hoyo[verse] da preferire”.