Da alcuni mesi c’è un nuovo podcast di videogiochi in città: si chiama, appunto, Storie di Videogame ed è ideato da Andrea Porta.
Nelle puntate racconta le vicissitudini, spesso complicate, che hanno portato alla nascita di giochi come Bioshock, The Witcher, Mass Effect e Assassin’s Creed.
Puoi seguire il podcast su Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e Amazon Music.
Massimiliano: Come organizzi una puntata? Da dove cominci?
Andrea Porta: La ricerca è parte stessa di come poi la puntata viene strutturata. Io parto dal voler parlare di un gioco, per motivi disparati. All’inizio era solo il mio gusto o qualcosa che conoscevo bene; più di recente mi arrivano tante richieste e varie puntate sono state fatte proprio in risposta a delle richieste.
Parto dal prodotto, inizio a informarmi sulla storia dello sviluppo del prodotto e da lì capisco che puntata farò: se vedo che la storia si presta a essere sceneggiata, allora faccio una puntata tradizionale; se vedo che la storia è più scarna, allora faccio un “Off the record”, formato più easy dove faccio una chiacchierata sul prodotto.
È tutto in evoluzione, non parto da subito con un’idea precisa a meno che non conosca già parti della storia, com’è stato, per esempio, con Silent Hill.
Dalla prima puntata a oggi cos’hai imparato?
Ho imparato che la ricerca è un processo tentacolare, a cui non puoi mettere dei paletti.
Per esempio, già per la seconda puntata a cui ho lavorato, quella su Tomb Raider, durante la ricerca sono incappato in un libro scritto da una persona che lavora a Derby e ha intervistato le persone del team originale. È stata una miniera d’oro di informazioni: così tante che non sono riuscito a metterle tutte nella puntata perché sarebbe diventata infinita.
È un chiaro caso dove il tempo di ricerca si allunga. Spesso succede che preparo una scaletta e prevedo un piano b, un piano c, un piano d; una delle prime cose che ho imparato, quindi, è non dire “la prossima puntata sarà questa” perché poi può succedere qualcosa che cambia i piani.[Dalla prima puntata] C’è stato un grande avanzamento tecnico. Sono partito senza mai aver fatto un podcast, anche se avevo lavorato su montaggi audio e video professionali; ma il podcast è una cosa diversa: bisogna affinare l’audio, inserire gli effetti audio. Sono tutte cose che maturano nel tempo.
Per creare le varie puntate fai affidamento su varie fonti, dai talk della Game Developers Conference alle interviste rilasciate. Come le scegli e soprattutto quando decidi di fermarti?
Dipende da che fonti sono. Se sono fonti dirette, come un’intervista a uno sviluppatore, spesso trovo informazioni di prima mano e che posso considerare verificate. Sebbene qualche volta capita, soprattutto per i giochi vecchi, che ci possano essere contraddizioni e incoerenze su come e quando è successa una certa cosa. A quel punto, allora, cerco conferme da ulteriori fonti; e se non riesco a trovarle, ometto le informazioni di cui non sono certo.
Delle puntate complesse da scrivere sono state quelle su Bioshock perché ci sono tanti eventi che avvengono contemporaneamente, sono coinvolti più studi e ci sono vicende umane molto delicate; quindi è servito incrociare le informazioni date alla stampa, le chiusure.
In questi casi cerco di andare il più a fondo possibile, mentre se la storia è lineare, alla terza o alla quarta conferma di un fatto posso essere tranquillo.
Dopo la puntata su Cyberpunk 2077 mi ha scritto il PR italiano di CD Projekt per farmi i complimenti perché avevo dato delle informazioni corrette: non me lo aspettavo, è stata una sorpresa e mi ha confermato che avevo fatto un buon lavoro. Io una storia raccontata così non l’avevo mai trovata e quindi mi ha fatto piacere trovare un endorsement da chi era dentro quando quelle cose succedevano.
Ti è mai capito di iniziare una ricerca e di accorgerti che non avresti trovato abbastanza informazioni su un gioco?
Succede, sì. C’è sempre l’”Off the record” che mi salva per una puntata anche di cinque minuti, però qualcosa ci vuole comunque. Quando succede, lascio fermo il contenuto e mi occupo di altro. Per esempio, sto cercando di fare una puntata su S.T.A.L.K.E.R., ma la sto lasciando un po’ in pausa perché non trovo sufficienti informazioni.
Ci sono stati casi in cui hai ammorbidito alcuni aspetti o ne hai romanzati altri?
I dialoghi nell’80% delle volte sono immaginati, mi sembra palese: racconto degli eventi realmente accaduti, a cui magari è stato fatto accenno in un’intervista. Quel dialogo lo immagino completamente.
Ci sono altri casi in cui questa cosa la inserisco con una citazione dell’autore.
Sul romanzare gli eventi mai: racconto quanto viene raccontato. Poi se è stato romanzato all’origine, dipende da chi ha raccontato la storia. Ammorbidire neanche. Io tengo una narrazione il più possibile asettica e cerco di non dare giudizi perché non è il ruolo del podcast né il mio. Ognuno poi tira le sue conclusioni.
Quanta parte della puntata è scritta o quanta è improvvisata nel momento in cui registri?
Nel caso delle puntate principali, zero improvvisazione: è tutto scritto precedentemente. Può succedere che durante la registrazione mi renda conto che una parte non funzioni bene e quindi che faccia al volo delle modifiche, ma sono cose molto piccole.
Nel caso degli “Off the record”, ho di fronte una pagina di testo con alcuni punti da trattare e vado a braccio.
Ti sei ispirato ad altri podcast?
Ne ho ascoltati talmente tanti che è inevitabile che le cose siano, in qualche modo, penetrate. Il podcast non faceva parte dell’idea originale, che ho avuto nel cassetto per tanto tempo. Ho cambiato idea quando durante la pandemia ho ascoltato molti podcast e ho capito che tipo di narrazione si potesse fare: è stata un’illuminazione. Non c’è però un podcast preciso a cui ho fatto riferimento.
È normale che quando si parta con questi progetti ci siano tante idee iniziali e che, quando la scaletta iniziale si esaurisce, si passi ad altri contenuti, magari più trasversali. Gli stessi “Off the record” sono nati per consentire più continuità. Come gestisci questo aspetto?
Io affronto una sfida con questa cosa: devo mediare il progetto con il mio lavoro quotidiano a tempo pieno. Gli “Off the record” sono anche una risposta a questo.
Quando ho cominciato avevo parlato di fare una puntata al mese, ma poi mi sono reso conto che diventando più pratico con il montaggio i tempi di produzione si sono accorciati e mi è venuta l’idea di puntate più dirette e più facili da montare.
Relativamente alla situazione attuale, quindi una puntata ogni 7-10 giorni, è sostenibile. Se sentissi il bisogno di fare una pausa, lo farei serenamente: non avrei problemi a farlo in futuro se ne sentissi la necessità.
Per le idee, più vado avanti e più ne ho. Ora sto lavorando a un nuovo formato per le puntate, che vorrebbe parlare di uno sviluppatore ben specifico, ma non voglio farlo con i grandi sviluppatori.
Mi piacerebbe andare a pescare fra gli sviluppatori italiani, che lavorano in Italia o all’estero, e che vogliano raccontarsi. Non sarà un’intervista, perché non mi piace ascoltarla in podcast, ma un racconto a due voci: io faccio la voce narrante che collega gli eventi e poi c’è lo sviluppatore che si racconta. Non una serie di domande e risposte, ma un racconto.
Mi sono reso conto che tanti di quelli che ascoltano il podcast stanno studiando o in futuro vogliono entrare nel settore. Questo tipo di puntate potrebbe aiutare queste persone a capire che strada percorrere.
Di recente hai aperto alle donazioni. Qual è stata la risposta di chi ti segue?
Molto buona e ne sono felice. La chiave credo che sia stata essere trasparente sul perché l’ho fatto e cosa faccio con quelle donazioni. Ho creato una puntata, che si chiama “Update”, dove chiacchiero dello stato del podcast, quanti lo seguono, quanti lo ascoltano: non avendo prospettive commerciali posso permettermi di essere trasparente sui numeri. Credo che questa cosa sia piaciuta molto.
Io il tempo nel podcast ce lo metto volentieri e non voglio essere pagato per questo.
Che percentuale di persone che ti segue ha donato?
Circa il 10%.
È una percentuale molto alta.
Facendo marketing, la definirei una retention ottima. Sono rimasto molto colpito.
Dopo tante puntate di Storie di Videogame, alcuni elementi e dinamiche comuni quando le cose vanno storte sono chiare: figure creative che hanno troppa libertà, idee iniziali fuori portata, scarsa esperienza imprenditoriale. Che idea ti sei fatto?
L’industria videoludica è meno strutturata di quanto siamo portati a pensare, ma questa è anche la sua magia. È una sorta di evoluzione inevitabile: capisci perché a un certo punto le aziende hanno messo dei paletti o perché devono fare una produzione seriale in cui 4-5 elementi di gameplay vengono aggiornati continuamente, pur cambiando asset, forma e narrativa.
Questo tipo di cose alla lunga porta effetti negativi: i numeri calano, per esempio, dopo anni di sfruttamento degli stessi elementi. È chiaro però perché venga fatto.
Dal punto di vista evolutivo del settore è comprensibile: sempre più persone giocano e per buttare fuori sempre più videogiochi, mantenere certi standard qualitativi e farlo velocemente da qualche parte devi diventare più settoriale e ordinato. Ci sono aziende che riescono a vivere una vita differente, mi viene in mente CD Projekt con i suoi alti e bassi.
È un’industria in cui tanti prodotti escono in maniera imprevedibile ed è anche il bello: è uno sforzo creativo costante, collettivo e dove anche quando c’è un’idea molto forte alla base, penso a The Last of Us, per realizzarla ci saranno da scalare le montagne. È sempre così, alla fine, ed è ciò che rende l’industria del videogame affascinante. Penso che se qualcuno provasse a fare “Storie di cinema”, sarebbe più difficile e lo potresti fare solo per pochi film.
Nell’industria del videogioco c’è quasi sempre una storia da raccontare, una difficoltà che è successa o un modo di fare le cose che non era previsto all’inizio.
Parafrasando le parole di Cory Balrog, è un mezzo miracolo che i giochi escano. Una volta disse che i giochi sono un casino fino al momento in cui non lo sono più.
Sì e ciò genera il peccato originale dell’industria, ossia il crunch. È già stato dimostrato che, entro certi limiti, è inevitabile avere un periodo finale in cui gli orari di lavoro eccedono quelli contrattuali. Questa cosa può raggiungere livelli disumani, ma è una situazione che interviene quasi sempre e vale, comunque, anche per altri progetti in cui la fase finale prevede un’accelerazione.