Insert Coin è anche un podcast. Ascoltalo sulle principali piattaforme.
Il crunch – la pratica di appoggiarsi a condizioni lavorative straordinarie per rispettare le date di uscite, per esempio costringendo le persone, direttamente o indirettamente, a lavorare oltre al consueto orario e anche nei fine settimana – è un elemento che da sempre caratterizza il settore dei videogiochi.
Non significa che lavorare oltre al consueto orario sia peculiare solo a questo settore; ma in poche altre industrie sembra essere qualcosa di radicato all’interno delle abitudini, persino della storia stessa del medium.
Le tante storie di cui siamo venuti a conoscenza rappresentano la famosa punta dell’iceberg: in tanti altri casi, semplicemente non lo sappiamo. Perché è così che si è fatto per tantissimo tempo, anche in Italia agli albori del settore, e si continua a fare. Anche quando non lo sappiamo pubblicamente.
Ed è qui che sta il problema: ne siamo ormai anestetizzati.
Le notizie su simili pratiche aziendali vengono accolte con un momento di sdegno, che però dura sempre di meno: giusto il tempo di un commento indignato sotto alla notizia o sul profilo social. Ma poi, dopo pochi giorni se non poche ore, è di nuovo tempo di passare ad altro.
Ci siamo indignati quando un resoconto di Venture Beat ha raccontato il contesto in cui High Moon Studios ha lavorato sui due giochi della serie Ori. Un resoconto dove una testimonianza di una persona che era presente ha detto che lavorare lì dentro in quel periodo era come “morire per migliaia di piccoli tagli”. Poi, però, è passato.
Ci siamo indignati quando è emerso che durante lo sviluppo di Fallout 76, in Bethesda i dipendenti sono stati costretti a lavorare in condizioni inadeguate per portare a termine quel gioco. Oggi è storia vecchia: ci importa di sapere quando esce Starfield o Redfall, entrambe produzioni di Bethesda.
Ci siamo indignati quando un’indagine di People Make Games ha raccontato cosa succedeva dentro a tre studi indipendenti – Mountains, Fullbright e Funomena – a causa di come la figura creativa principale abusasse della sua posizione ed esaurisse le risorse delle persone attorno a sé. Poi, però, è passato.
Ci siamo indignati quando l’amministratore delegato di Striking Distance, Glen Schofield, ha parlato pubblicamente di come le persone lavorassero 6-7 giorni alla settimana, anche 12-15 ore al giorno, per portare a termine The Callisto Protocol. Poi, però, è passato: e all’uscita del gioco, nei giorni scorsi, non c’è stato alcun riferimento a quell’episodio.
Un nuovo resoconto di GamesIndustry ha parlato di come in From Software si è spesso stati obbligati a lavorare ben oltre all’orario di lavoro prestabilito per portare a termine un gioco, anche per alcuni mesi consecutivi. Per altro, dopo la mezzanotte, la retribuzione oraria veniva dimezzata rispetto a quella applicata normalmente – e per altro, From Software già paga meno della media delle aziende di videogiochi giapponesi.
Eppure, l’ultimo videogioco dell’azienda, Elden Ring, è candidato ai The Game Awards fra i possibili giochi dell’anno. Quegli stessi The Game Awards che lo scorso anno hanno deciso di escludere Activision Blizzard King a seguito delle accuse rivolte alla società per un ambiente discriminatorio e sessista.
Al tempo, l’organizzatore della cerimonia, Geoff Keighley, disse che “non c’è spazio per abusi, molestie e pratiche predatorie in alcuna azienda o in alcuna comunità” perché i The Game Awards sono “un momento di celebrazione” dei videogiochi. Quello “spazio” a cui ha fatto riferimento Keighley non include il crunch, evidentemente.
Il crunch non è sparito: siamo noi che ce ne dimentichiamo continuamente.
Vogliamo o non vogliamo tracciare un confine superato la quale le aziende devono essere ritenute responsabili?
Vogliamo o non vogliamo assumere una posizione definitiva rispetto a simili pratiche aziendali che non rispettano chi lavora e chi produce videogiochi?
Vogliamo o non vogliamo, una volta per tutte, affermare che non è possibile che un’industria poggi le sue fondamenta su pratiche come il crunch?
Altrimenti, se non vogliamo tutte queste cose, stiamo ammettendo che ci interessano solo i videogiochi. A qualunque costo vengano fatti.
Massimiliano
Definire il momento che sta vivendo Twitter come “caotico” sarebbe usare un grandissimo eufemismo.
Da quando l’imprenditore Elon Musk ha acquistato la società – dopo aver insistito con la proposta, aver provato a tirarsi indietro per poi, infine, essere praticamente costretto a completare l’operazione per evitare rogne legali – è successo un po’ di tutto.
Sono state licenziate molte persone.
Sono state riassunte altre persone dopo che Musk si è accorto che alcuni reparti erano sguarniti.
Musk ha anche messo i dipendenti di fronte a un ultimatum: restare a lavorare in Twitter accettando “lunghe ore ad alta intensità” o andarsene con tre mesi di stipendio. Molti hanno accettato; altri se ne sono andati.
Nel frattempo, ha ripristinato gli account di personalità che erano stati bloccati per i loro contenuti. Persone come l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, lo psicologo Jordan Peterson e l’artista Ye. (Ye è stato poi di nuovo sospeso dopo che ha pubblicato una svastica.)
A oggi, è difficile conoscere per davvero il futuro di Twitter. Musk si muove molto velocemente; e nell’intenzione di portare Twitter a generare profitti, qualcosa in cui la società ha sempre fatica, intende tagliare qui e là. Se anche rimarrà attiva, non si sa in che stato sarà la piattaforma; e comunque, avrà subito un notevole danno di immagine e di credibilità. Al punto che già ora tante aziende hanno fermato gli investimenti pubblicitari in Twitter.
In mezzo ci sono comunità di persone che si trovano di fronte a un uragano guidato con un radiocomando da un ricco imprenditore e osservano mentre quell’uragano scoperchia le case, sradica gli alberi e lancia in aria le auto.
Fra quelle persone c’è anche chi lavora nel settore dei videogiochi: chi li sviluppa, chi li pubblica, chi li traduce; chi cerca contatti per delle interviste, chi si propone come freelance.
Tutti sembrano consapevoli di una cosa: sostituire Twitter è pressoché impossibile.
Cosa succede su Twitter
Twitter è una piazza pubblica. È disegnato affinché ogni persona possa commentare, con rare eccezioni, i tweet di altre persone; è pensato per accorciare le distanze e per rendere semplice contattare chiunque.
Proprio per questo, la comunità di sviluppatori di videogiochi lo usa ampiamente per pubblicare il proprio gioco, ma soprattutto per conoscere nuove persone, farsi notare o per intessere quelle relazioni che, soprattutto quando sei un freelance, ti possono assicurare un accordo o un contatto utile.
Insomma: Twitter è il posto della discussione, ma è anche il posto attraverso cui molte persone intercettano nuovi giochi e ìattraverso cui vari sviluppatori possono intercettare nuovo pubblico.
“Ho personalmente trovato Twitter un posto ideale per fare rete con altri traduttori e trovare potenziali clienti”, mi ha detto in un messaggio su Twitter Marc Eybert-Guillon, traduttore e direttore dell’agenzia From the Void. “Sia la comunità di traduttori sia quella di sviluppatori di videogiochi sono molto attive su Twitter, molto più che su altre piattaforme. L’instabilità di Twitter è davvero preoccupante”.
“Twitter è fondamentale”, mi ha detto Andrea Valesini, direttore creativo di Fantastico Studio, durante un’intervista a Milan Games Week. Fantastico Studio non è solo sviluppatore, ma anche editore. Perciò, Twitter è lo strumento ideale per scovare, attraverso hashtag come #indiegame o #madewithUnity, quei giochi indipendenti promettenti che può essere interessante pubblicare. “È pieno di sviluppatori di videogiochi; quindi, uno riesce a interfacciarsi con altri colleghi, scoprire nuovi giochi, scoprire nuovi tool”, ha aggiunto Valesini.
Secondo Matteo Gonano di Panik Arcade, sviluppatore di Yellow Taxi Goes Vroom, la chiusura di Twitter “sarebbe un bel disastro”. “Molti sviluppatori si promuovono su Twitter e così stiamo facendo noi tramite l’editore”, mi ha risposto alla specifica domanda durante Milan Games Week.
Una cosa su cui concordano le persone che ho sentito è che per quanto Twitter sia centrale nel fare rete e nel portare avanti le discussioni del settore, non è un buon strumento per fare marketing. In altre parole, tanti tweet, tante risposte, tanti contatti, ma quando si parla di vendite e conversioni, social network come Facebook o Instagram sono più adatti.
“Di base, è Facebook il punto di partenza per la nostra comunicazione social al momento”, mi ha spiegato una persona che lavora in un’azienda italiana che sviluppa videogiochi e che, per accordi con l’editore, ha preferito restare anonima.
“Twitter lo uso pochissimo”, ha confessato Fortuna Imperatore, autrice di Freud’s Bones. “Uso Facebook e Instagram, anche un po’ Reddit. Nel mio caso, ha sempre convertito pochissimo”.
“Twitter non è un buon strumento di marketing”, ha sottolineato Valesini. “Le persone che vedono i contenuti sono anche quelle che li fanno; non sono le persone che acquisteranno il tuo gioco, ma sono i tuoi colleghi. Avere numeri alti non equivale ad avere successo a livello commerciale”.
Viene quindi naturale pensare a spostarsi da un luogo che sta diventando ancora più caotico, dove si converte poco e dove dialogare è complicato.
Infatti, molte persone si stanno spostando altrove, sia per muoversi verso lidi digitali meno rissosi di Twitter sia per avere un piano B nel caso in cui Twitter cambi per sempre.
Anche qui, le cose non sono così semplici.