Uno dei modi più veloci e più diretti di comunicare il valore e il peso del settore dei videogiochi, specialmente quando si parla con persone che non seguono il settore regolarmente, è sempre quello di dire: vale centinaia di miliardi di dollari. Più del cinema e della musica messi insieme. Produrre un gioco può arrivare a costare centinaia di milioni di dollari e incassarne altrettanti. Insomma: è qualcosa di enorme, incredibile e in costante evoluzione; che con i suoi giochi online crea nuove reti sociali e si sposta verso mondi condivisi connessi. È il presente che anticipa il futuro.
Creiamo, attorno al racconto del videogioco, un’immagine di un colosso che avanza, è inarrestabile e chiunque deve saperlo: dai videogiochi, non si scappa.
Ogni tanto, però, ci sono notizie che ci riportano alla realtà. Che ci dicono che i videogiochi, o almeno raccontare i videogiochi, non sono una priorità non solo per molte persone, ma anche per quelle realtà che dovrebbero occuparsi di videogiochi perché rappresentano una parte del racconto della società, della realtà che ci circonda e di dove stiamo andando.
Nei giorni scorsi, il Washington Post, uno dei più grandi giornali al mondo e negli Stati Uniti secondo solo al The New York Times e da alcuni anni di proprietà del fondatore di Amazon nonché miliardario Jeff Bezos, ha annunciato il licenziamento di 20 persone. Fra queste c’era l’intera redazione che componeva Launcher, cioè la sezione verticale che parlava di videogiochi. Insomma: il Washington Post ha deciso di non parlare più di videogiochi. E attenzione: non perché le cose andassero male, anzi.
Il responsabile di Launcher, Mike Hume, ha scritto su Twitter che “nel corso di tre anni, Launcher ha attirato oltre dieci milioni di utenti, la maggior parte dei quali erano lettori inediti per il The Post (come viene chiamato il Washington Post, ndr) e quasi tutti con un’età inferiore ai 40 anni”.
Nel 2022, ha continuato Hume, il traffico generato dagli articoli prodotti da Launcher – che andavano dalle recensioni alle interviste fino a importanti approfondimenti giornalistici – era in crescita rispetto all’anno precedente. Proprio per questo, “la nostra missione stava avendo successo. Sono stordito. Ma soprattutto, sono triste di perdere colleghi a me così cari, speciali e dediti”.
I licenziamenti al Washington Post seguono quelli registrati in altre redazioni internazionali: IGN, GameSpot, Game Informer, Fanbyte.
Nella sua newsletter, Jacob Wolf, ex penna di ESPN per gli esport, ha scritto qualcosa con cui concordo molto e che ci dice quanto poco spazio sembra esserci, oggi, per articoli e approfondimenti che trattino il videogioco in materia adulta. E che tutto sommato, lascia, purtroppo, anche poca speranza.
Ha scritto Wolf: “Launcher era il migliore di noi, coprendo tutti i temi rilevanti – streaming, gaming entertainment, diritti del lavoro e altro ancora – e stava crescendo, diversamente da altri. Eppure, è stato tagliato dalla dirigenza. Se Launcher non era abbastanza, chi può esserlo?”
Massimiliano
Embracer è un’entità sfuggente. Lo è, intanto, perché non è nata con questo nome. Ma anche perché, come leggerai fra poco, non rappresenta un normale editore di videogiochi, ma più un equivalente aziendale del mostro di Frankenstein: è tante cose insieme e nessuna di queste rappresenta, davvero, Embracer.
Se ne è parlato di recente perché ha acquisito da Square-Enix gli studi occidentali di Eidos Montreal e Crystal Dynamics e con essi serie come Tomb Raider, Thief, Legacy of Kain e Deus Ex.
Embracer, che ha sede in Svezia, è la più grande azienda di videogiochi in Europa; ha potuto acquisire molte aziende investendo miliardi di euro negli ultimi anni e, oltre a quelli citati prima, possiede marchi popolari come Borderlands e Duke Nukem.
Oggi Embracer ha una capitalizzazione di mercato di oltre 5,4 miliardi di euro, vanta 130 studi di sviluppo e sta lavorando a più di 200 videogiochi.
In vari modi, Embracer è una società di videogiochi come tante altre. E in molti altri, è qualcosa di completamente diverso.
La storia di Embracer
Intanto, la storia di Embracer. Per prima cosa, non si è sempre chiamata così. Il suo nome era Nordic Games e nasce negli anni 90 ed è sempre stata guidata dall’attuale amministratore delegato, Lars Wingefors.
Nei primi anni 2000, Nordic Games cambiò nome in Game Outlet Europe. Al tempo, acquistava le copie rimaste invendute da editori come Electronic Arts per rivenderli sul mercato internazionale.
È nel 2008, però, che avviene la trasformazione che darà il via alla forma che Embracer ha oggi: cioè dalla volontà di produrre videogiochi e non semplicemente rivendere quelli degli altri. Nasce Nordic Games Publishing, sotto l’ombrello di Game Outlet Europe.
È fatto poco noto, ma We Sing, per esempio, è stato pubblicato da Nordic Games, insieme a Dance Party Club Hits, venduto con tanto di tappetino per eseguire i passi richiesti.
Perciò, Nordic Games non è apparsa dal nulla: semplicemente, per anni è stata un editore minore, che pubblicava giochi poco appariscenti, soprattutto nell’epoca Wii, quando i giochi che arrivavano sul mercato, cercando di cavalcare l’onda del successo di quella console, erano davvero tanti.
Veloce salto in avanti a quello che è il trampolino di lancio di Nordic Games, che nel frattempo ha cambiato nome in Nordic Games Holding: Game Outlet Europe e Nordic Games Publishing ne diventano sussidiarie.
Nel 2011 Nordic Games acquisisce gli asset di JoWood Entertainment, editore di giochi come Gothic e SpellForce.