Questo è un concetto di cui ho parlato altre volte, lo ripeto ora e, ne sono certo, lo ribadirò in futuro.
Quando si tratta di fare informazione, ci si concentra molto su ciò che si sceglie di scrivere e come lo si fa. Un’altra cosa altrettanto importante, se non ancora di più, è cosa si sceglie di non scrivere. Può sembrare strano perché quanto non viene scritto non può essere letto; ma allo stesso tempo il filtro che viene applicato, la scelta del non scrivere qualcosa, avvalora l’importanza di ciò che viene scritto e indica una precisa decisione: ho scelto attivamente di non scrivere qualcosa.
I siti di informazione in Italia, per esempio, tendono a non parlare degli altri siti e di cosa accade loro, come se non esistessero. Il caso recente è quello di Eurogamer Italia. Una testata che, al di là delle metriche, esisteva da anni e che ha chiuso abbastanza rapidamente. I segnali da fuori non c’erano finché un giorno un editoriale del direttore, Stefano Silvestri, ha annunciato l’immediata cessazione delle attività.
Non sono qui per valutare le cause che possono portare un sito a chiudere perché ogni sito è gestito da un’azienda diversa e ogni azienda ha delle dinamiche proprie, che non sempre sottendono alle stesse linee di tutte le altre aziende.
Il rumore più forte, semmai, è stato quello di tutti gli altri siti che non ne hanno parlato.
Il settore dell’informazione italiana, in generale e non unicamente videoludico, soffre di uno storico problema nel parlare delle altre testate che fanno cose; anzi, spesso è difficile accreditare quando sono le altre testate a fare qualcosa, a indicare che è stato quell’altro giornale ad avviare un’inchiesta o che è stata l’intervista su quell’altro giornale a dare il via a una discussione interessante. Dare il merito agli altri in qualche modo viene percepito come screditare se stessi o svantaggiare se stessi.
Questa pessima abitudine è stata certamente assorbita anche dall’informazione sui videogiochi, che vive in una sorta di bolla: come se al di là del contenuto prevalentemente di prodotto – legato al videogioco, al suo sviluppo e alla sua commercializzazione e, negli ultimi anni, al discorso culturale attorno al videogioco – non si possa parlare di altro.
Si tratta di un problema che ci dice molto di come intendiamo l’informazione attorno al videogioco, ma anche della grande instabilità che vivono le testate di videogiochi e di come lavorano. La scelta di non parlare della chiusura di Eurogamer Italia, fingendo che non sia successo niente, ci dice che i siti non vogliono assumersi la responsabilità di parlare di fatti un po’ scomodi, degli stracci sporchi delle case altrui, anche forse per timore che quanto accaduto ad altri poi potrebbe, quasi come effetto karmico, accadere ad altri.
La situazione, però, è che l’informazione di videogiochi non può permettersi di vivere in una bolla e di fingere che certe cose non accadano. L’informazione videoludica non è solo l’informazione sul prodotto-videogioco, ma anche sul modo in cui si parla di videogiochi e sul modo in cui sono trattati e discussi e ciò viene fatto anche sulle altre testate; quindi, il modo in cui le altre testate di videogiochi vanno avanti, se aprono o se chiudono, ci dice qualcosa di come parliamo di videogiochi in Italia.
La chiusura di Eurogamer Italia, a prescindere dalle connotazioni della singola azienda, può dirci qualcosa della difficoltà di fare editoria specializzata in Italia; di come si è evoluto il modo di fare informazione in Italia sui videogiochi; e, in generale, ci racconta qualcosa anche del settore italiano perché c’erano persone che ci lavoravano a tempo pieno o parziale. E queste persone, di punto in bianco, hanno smesso di lavorare per quella testata.
Il non parlarne implicita quasi la mancanza di volontà di accettare la realtà; come se parlare di videogioco sia una cosa e raccontare il videogioco “reale” sia invece quasi tabù. Parlare di quanto accade all’estero, che siano testate o case di sviluppo o distributori, è più facile, naturalmente, perché la distanza geografica è anche una distanza produttiva ed emotiva: c’è una sorta di barriera protettiva, anche se oggigiorno le distanze di questo tipo sono molto più corte che in passato.
Parlare di quanto accade in Italia è più complicato: perché nel settore ci si conosce, perché quella persona che ha perso il lavoro la potresti trovare a un’occasione di ritrovo pubblica un mese dopo. Inoltre, è più vicino e quindi è più probabile che quanto accaduto stia anche raccontando un problema trasversale che, tangenzialmente o no, riguarda tutti noi. E questo è sicuramente più difficile, ma è anche tanto importante che si faccia: per il bene dell’informazione, sempre che ci teniamo a farla bene.